Berlioz e Michieletto, La Damnation de Faust

Psichedelico e incontenibile. Il Faust di Berlioz e Michieletto. Il Teatro dell’Opera di Roma apre la stagione con un titolo insolito, musicato da Hector Berlioz per una sinfonia a metà tra diversi generi musicali.

di Flavia Forestieri

 

Berlioz e Michieletto, La Damnation de Faust Il Faust di Berlioz e Michieletto. Rimanendo nell’ottica delle grandi “sfide” che quest’anno il teatro dell’opera italiano sta lanciando al proprio pubblico, all’indomani della sorprendente decisione de La Scala di aprire con l’Andrea Chénier, anche il Teatro dell’Opera di Roma compie un salto nel buio, scegliendo di dare inizio alla propria stagione con un’opera-non opera, molto complessa e fuori dal repertorio: La Damnation de Faust di Hector Berlioz, una sorta di “matrioska” che lancia una sfida a partire dal titolo, racchiudendo poi la regia e l’esecuzione musicale.

Sfidante è l’opera di per sé che, in realtà, non è nemmeno un’opera, ma una «légende dramatique» come la definisce il compositore: viaggia a cavallo di diversi generi, tra cui la sinfonia, la sinfonia a programma (la narrazione di un evento drammatico in musica) e, tra gli altri, l’opera. Anche se il suo anno di composizione è 1846 non ha nulla a che vedere con l’opera romantica italiana o l’Opéra lyrique francese, per espressa volontà di Berlioz, che per tutta la propria carriera musicale aveva attraversato trasversalmente i generi dominanti.

Il risultato è una lunga opera sinfonica con danze, marce, romanze, articolata in quattro quadri musicali, drammaturgicamente slegati tra loro, che mettono in scena, o meglio, in musica, gli episodi del Faust di Goethe che più colpirono Berlioz quando questi lo lesse per la prima volta nel 1828. A partire dalla lettura della traduzione di Gerard de Nerval, Berlioz per vent’anni cercherà di realizzare un’opera (nel senso di opus) a tema Faust, condividendo con il suo protagonista la damnation della ricerca della forma perfetta: nel 1928 sono solo Huit scenes de Faust a diventare poco dopo una sinfonia, ma che finirà per essere slegata dalla sua origine (la Symphonie Fantastique); solo nel 1845 il compositore penserà di inserirvi le parole (da lui stesso firmate), ma senza pensare a uno spettacolo per il teatro, bensì solo in forma di concerto.

La complessa genesi della composizione permette di comprendere come un’opera simile possa risultare ostica al pubblico dei non addetti ai lavori: se la coerenza sinfonica è indubbia quella drammaturgica non lo è per nulla. Lo spettatore non musicista deve quindi compiere un atto di fede nei confronti del teatro e affidarsi ai due sacerdoti, il direttore Daniele Gatti e il regista Damiano Michieletto, che posseggono le chiavi per decodificare, scrivere e sovrascrivere uno spettacolo che, sostanzialmente, non esiste.

Il linguaggio di decodificazione che preferisce Michieletto è quello della contemporaneità, che nelle sue regie dialoga sempre in modo creativo con l’opera di partenza. In questo caso, più che di creatività, si dovrà parlare di immaginazione: di un’opera costruita unicamente sulla musica il regista coglie le atmosfere, le suggestioni e proietta la storia di Faust su una grande tela bianca, che è il palcoscenico stesso, facendo diventare il protagonista un ragazzino tormentato dai fantasmi dei ricordi del passato, bullizzato e infelice.

Si parte per un viaggio psicotropo di due ore e un quarto (trattandosi di una sinfonia, non c’è intervallo) nella mente del giovane Faust (Pavel Černoch) tra ricordi d’infanzia e sogni, in un continuo accavallarsi dei piani realizzato con l’aiuto di filmati preregistrati e proiezioni in diretta del girato di un operatore steady sul palco. La steadycam segue le azioni dei personaggi raddoppiandone l’impatto scenico e generando così un particolare effetto cinematografico di super liveness, che amplifica ogni dettaglio e rende visibili particolari altrimenti invisibili allo spettatore.

Così, voyeur al quadrato, finiamo catapultati nelle emozioni di Faust e in quell’inferno bianco che sembra essere il set ideale per la rock star Mefistofele (Alex Esposito), diavolo modaiolo, eccessivo ed esibizionista, sempre in scena fin dall’inizio, con l’unico spasmodico desiderio di conquistare l’anima del protagonista. Le proiezioni allucinate e gli architettati inganni, come la ricostruzione posticcia del giardino dell’Eden (utilizzando il dipinto di Cranach il vecchio) per far sì che nasca l’amore tra Faust e Margherita (Veronica Simeoni), hanno l’unico scopo di spingere il protagonista, teoricamente alla ricerca della felicità, a trovarla proprio in Mefistofele: è lui che Faust bacia appassionatamente, credendo di baciare Margherita.

Tantissimi elementi e sottotrame si richiamano e si rispecchiano gli uni nelle altre, mostrando come Michieletto non cerchi di ricostruire un’impossibile progressione cronologica, ma ci chieda di abbandonarci al flusso “onirico”, che potrebbe addirittura essere dovuto fin dall’inizio allo stato comatoso di Faust, che per diverse volte nei filmati ci viene mostrato intubato in un letto d’ospedale (cosa che spiegherebbe anche la presenza dei due asettici corridoi laterali pieni di neon, i diavoli bianchi vestiti da operatori sanitari e la bara di Faust, anch’essa bianca).

Se un filo di Arianna non si può cercare nella drammaturgia, può invece essere ritrovato nelle ottime esecuzioni dei tre protagonisti, alle prese con delle parti vocali insidiose, ma soprattutto con ruoli impegnativi: eccellenti attori e attrici, che hanno dato vita a personaggi tridimensionali e sfaccettati, sfatando il mito del cantante d’opera che può essere o solo voce o solo fisico (con una menzione speciale a Alex Esposito, così totalmente padrone del personaggio che sarà difficile da oggi vederlo in altri panni che non siano quelli di Mefistofele. In linea con quanto detto per i cantanti, anche l’esecuzione di Gatti: asciutta, meticolosa, senza nessuna sbavatura romantica, perfetto contraltare di quello che avviene in scena. (  http://www.teatroecritica.net/  )

 

  di Flavia Forestieri
       (16/01/2018)

 

 

 

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