Educazione, un travaso di esperienza

Ripensare l’autorità? Tra chi educa e chi viene educato esiste una disuguaglianza di fatto, evidente soprattutto quando c’è una notevole differenza di età. Nella concezione autoritaria e neo-autoritaria, l’educazione è sostanzialmente un travaso di esperienza e di conoscenza da una generazione all’altra.
di Antonio Vigilante

 

La pubblicazione di un libro di pedagogia intitolato Ripensare l’autorità è un segno dei tempi. Fino a qualche anno fa un titolo del genere sarebbe apparso eccessivo provocatorio, mentre oggi non è da escludere che contribuisca a far lievitare le vendite del libro. Una campagna mediatica senza precedenti ha convinto l’uomo della strada che la scuola italiana è allo sfascio per mancanza di autorità e di disciplina, che ordinariamente nelle aule scolastiche avvengono atti di violenza, esibizioni più o meno goliardiche riprese con i telefonini e pubblicate su internet, libertà sessuali degne di certe commedie sexy all’italiana degli anni Ottanta. E così l’uomo della strada ed il governo si ritrovano felicemente concordi nel tuonare contro il lassismo e nell’invocare – e decretare – più rigore (così come si trovano d’accordo nell’esigere una certa durezza verso gli stranieri, la cui pericolosità è dimostrata ogni giorno, ed oltre ogni dubbio, dai telegiornali).

Considerato il contesto, è da ritenere dunque che le tesi di questo libro siano tutt’altro che marginali nel dibattito attuale sull’educazione. Segnano una via, indicano una tendenza, esprimono un’esigenza. Non è probabilmente inappropriato, per queste tesi pedagogiche e per le scelte politiche che ad esso sembrano corrispondere, parlare di neo-autoritarismo. Dal vecchio autoritarismo si distingue perché non giustifica l’autorità tout court, non considera l’obbedienza e la gerarchia come cose positive in sé, ma ritiene l’autorità uno strumento necessario per orientare gli educandi e per condurli verso la libertà.  Alla base di questa riscoperta dell’autorità c’è una precisa diagnosi dello stato attuale della società. I genitori e gli educatori, si dice, non sono più in grado di assumersi la responsabilità di educare, rinunciano al loro ruolo per preferire quello più comodo di amici dei loro figli e dei loro studenti; il risultato è che abbiamo una generazione senza padri, senza modelli, che per questo è allo sbando. Non avendo modelli positivi, i giovani si abbandonerebbero a quelli negativi, non disponendo di indicazioni etiche chiare, si lascerebbero sedurre dall’irrazionale e dal male. «Oggigiorno, sotto l’aspetto dell’antropologia pedagogica, si assiste a una crisi di riconoscimento da parte degli adulti verso le proprie responsabilità educative e verso le esigenze di crescita delle nuove generazioni», afferma Luigi Pati (p. 27). E Vanna Iori: «I giovani, nel cammino verso l’età adulta, hanno bisogno di punti di riferimento, di valori e di modelli per decidere se scegliere di farli propri, rifiutarli, modificarli. L’attuale assenza di proposte da parte dei genitori che hanno perduto il ruolo di referenti educativi sta producendo effetti di disorientamento» (p. 77).

Questa è la prima ragione del neo-autoritarismo. La si può naturalmente contestare, osservando che comporta una raffigurazione puramente negativa degli adolescenti e dei giovani del nostro tempo, trascurando ad esempio un fenomeno positivo come l’impegno nel volontariato e lasciandosi condizionare dal sensazionalismo dei mass-media; né è inopportuno ricordare che le lamentele sui giovani non sono cosa nuova: ogni generazione guarda alle precedenti con un misto di disprezzo e di compassione. Soprattutto, si può contestare la relazione causale tra il (preteso ed ipotetico) sbandamento dei giovani e la (pretesa ed ipotetica) rinuncia alla responsabilità educativa da parte degli adulti. Ammesso che abbiamo una nuova generazione di nichilisti, come essere certi che ciò sia dovuto ad errori e mancanze nell’educazione e non, piuttosto, al sistema economico capitalistico ed al consumismo, le cui conseguenze negative sull’identità sono state denunciate da decenni? Perché non individuarne la causa nella sostanziale mancanza di potere, nella esclusione dei giovani dalla vita economica e politica del paese, nella considerazione di essi come semplici destinatari passivi dei processi economici, acquirenti di prodotti più o meno costosi mantenuti dalla pubblicità e dai mass-media in uno stato di infanzia prolungata? Perché non considerare il carattere artificiale della adolescenza stessa, che è dovuta al ritardo con cui nelle società industrializzate le nuove generazioni entrano nel mondo del lavoro. E ancora: che senso ha isolare il malessere giovanile da quello della generazione adulta? Se immoralità c’è nelle giovani generazioni, essa non è in nulla superiore a quella degli adulti. In una società che ha una classe politica corrotta, una economia con larghi settori che sopravvivono anche grazie alla illegalità, un diffuso sfruttamento di soggetti stranieri verso i quali monta sempre più il razzismo, bisogna forse meravigliarsi che nei giovani vi sia ancora qualche riserva di moralità. Ma, si dirà, questo conferma appunto la diagnosi. Questi adulti corrotti sono incapaci di educare: di qui la crisi dell’educazione. E sia. Ma bisogna allora chiedersi ancora due cose. La prima: basta evocare l’autorità e l’autorevolezza per trasformare di colpo il mondo degli adulti in una ordinata società di educatori, di persone profondamente morali, di esempi da seguire? La seconda: come mai abbiamo una società così corrotta?

La seconda ragione del neo-autoritarismo è antropologica. Abbandonato a sé, si dice, l’uomo diventa facilmente preda dei suoi istinti peggiori, che sono potenti e fortemente radicati in lui.  Luigi Pati evoca Il signore delle mosche di Golding, e scrive: «L’assenza di regole è da lui [da Golding] collegata direttamente al prevalere della naturalità del male che, nel tempo in cui prende il sopravvento, fa dire a Ralph, uno dei pochi ragazzi del gruppo capace ancora di percepire il valore dei principi morali: ‘Io ho paura. Ho paura di noi. Voglio tornare a casa. O Dio, voglio tornare a casa!’» (p. 15). Come è noto, l’idea del romanzo venne a Golding dopo una sorta di esperimento che tentò come insegnante in una scuola elementare. Lasciò la classe, una quarta elementare, a sé stessa, per vedere cosa sarebbe successo. Ed accadde  il peggio: fu costretto a rientrare, prima che si giungesse alla rissa aperta. Naturalmente non è possibile negare una certa propensione dell’essere umano alla violenza, ma occorre ben più di un «esperimento» del genere per giustificare il pessimismo sulla natura umana. In realtà, sarebbe stato strano se quei bambini si fossero comportati in modo esemplare. Prendete venti bambini, metteteli insieme in un luogo nel quale sono costantemente sotto lo sguardo di una autorità, nel quale ogni loro azione è concessa se ha il consenso dell’autorità, nel quale occorre costantemente reprimere i propri bisogni per conformarsi a quanto richiesto dalla autorità, e privateli improvvisamente dell’autorità: il risultato sarà il caos, e non per una pretesa negatività della natura umana, ma perché qualsiasi sistema va in crisi se viene a mancare un suo elemento centrale. Se avesse avuto la pazienza di attendere un po’, Golding avrebbe probabilmente scoperto la capacità di quei bambini di giungere ad un diverso equilibrio. Nel suo romanzo, i bambini abbandonati sull’isola cercano di organizzarsi, di darsi regole senza gli adulti, ma presto prevalgono logiche violente che conducono alla lotta di tutti contro tutti. Immaginiamo che la storia sia vera, e chiediamoci: cosa ha condotto ad un tale esito disastroso? La malvagità innata nell’essere umano? L’incapacità di stabilire una autorità che le ponga un freno? O non sarà piuttosto, al contrario, proprio il tentativo di riprodurre maldestramente il mondo adulto, con la sua autorità? La maggior parte della sua vita sulla terra, l’essere umano l’ha vissuta in società di caccia e raccolta essenzialmente pacifiche, prive di autorità e di disuguaglianze sociali. Migliaia di anni di storia umana dimostrano il contrario dell’assunto di Golding. Prendete però una combriccola di agenti di borsa e lasciateli su un’isola deserta. C’è una buona probabilità che giungano a scannarsi a vicenda, e non per la pretesa malvagità della natura umana, ma perché hanno interiorizzato il modello violento e competitivo che caratterizza le relazioni umane nelle società capitalistiche. La storia recente, del resto, mostra che intere nazioni possono diventare preda di una vera e propria follia omicida e scatenare la propria violenza mimetica contro vittime innocenti. Per quanto resti sempre un residuo di incomprensibilità, un certo stupore di fronte all’assurdo dei campi di sterminio, è difficile ormai contestare che quell’orrore storico ha a che fare con la struttura autoritaria della società e dell’educazione, con la gerarchia ed il conformismo, con l’ideologia dell’ubbidienza ai capi. Nel romanzo di Golding dei bambini diventano violenti per mancanza di autorità; nella storia, interi popoli diventano violenti per la presenza dell’autorità. Certo, il neo-autoritarismo non intende riproporre la gerarchia e l’obbedienza ai capi, considera tutto ciò come un eccesso da condannare; ma quella tragica esperienza storica non dovrà indurre chi si occupa di educazione a pensare una educazione che sia l’opposto esatto di quel sistema che si è rivelato così pericoloso per l’umanità? Basta condannare gli eccessi dell’autorità? Non bisognerà piuttosto cercare una alternativa?

La terza ragione del neo-autoritarismo è fenomenologica. La relazione educativa, si dice, non può fare a meno dell’autorità, poiché si tratta di una relazione naturalmente asimmetrica. E’, questa, una convinzione ampiamente diffusa tra i pedagogisti, e non solo tra quelli consapevolmente e apertamente neo-autoritari. L’educatore e l’educando, si dice, sono su piani diversi, ed è propri questo che rende possibile l’educazione. Vanna Iori scrive che  «la relazione educativa è non-paritaria nei suoi elementi, per poter essere armonica nella sua globalità» (p. 67), per Luigi Pati «il fraintendimento della parità tra interlocutori di diversa età provoca il venir meno delle occasioni di dialogo e di proposta contenutistica e valoriale» (p. 22), mentre Lino Prenna afferma addirittura che l’autorità «si pone come principio di ogni relazione» (p. 35).

Tra chi educa e chi viene educato esiste una disuguaglianza di fatto, evidente soprattutto quando c’è una notevole differenza di età, ad esempio tra un maestro elementare ed i suoi alunni. Ma questa  disuguaglianza di fatto non può condurre ad alcuna disuguaglianza di diritto. Nemmeno i sostenitori del neo-autoritarismo negano che l’educando e l’educatore abbiano gli stessi diritti e la stessa dignità umana. Tuttavia, sostengono, resta fondamentale l’asimmetria, lo sguardo dall’alto dell’educatore. Al di fuori della relazione educativa, qualsiasi atteggiamento di superiorità è mal tollerato ed incompatibile con quella uguaglianza di tutti che è il fondamento stesso di una società democratica. Se considerasse con sufficienza il fruttivendolo che gli incarta la verdura, il professore apparirebbe come una persona tutto sommato poco civile, nonostante la sua cultura. La società democratica non tollera atteggiamenti di superiorità. Non c’è fattore culturale, economico, sociale che possa giustificare il sentirsi ad un livello superiore rispetto a quello degli altri. Cosa cambia quando si parla di educazione? Perché ciò che non è tollerato fuori dai contesti educativi è considerato necessario in un contesto educativo?

Quando si considera inevitabilmente asimmetrico un rapporto educativo, lo si pensa come una relazione tra A, l’educatore, e B, l’educando, nella quale è fondamentale che B si muova e progredisca verso A. L’educatore rappresenta il modello dell’educando. Quando lamentano la crisi dell’autorità, i neo-autoritari deplorano fondamentalmente, come abbiamo visto, la mancanza di modelli educativi. E’ necessario dunque che A non sia al livello i B, perché se così facesse non potrebbe rappresentare un modello per lui, e non vi sarebbe alcun dinamismo. Se l’educazione deve comportare un progresso per l’educando, allora è indispensabile che vi sia un verso-dove, e che questo sia rappresentato dall’educatore. Per dirla con le parole di Hölderlin, «il fanciullo, come l’albero, cerca ciò che è più alto di sé».2

I neo-autoritari presentano l’autorità come il giusto mezzo aristotelico tra l’autoritarismo ed il permissivismo. L’autorità è il giusto esercizio del potere dell’educatore sull’educando; l’autoritarismo rappresenta un eccesso, un potere arbitrario ed irrazionale, mentre il permissivismo è la rinuncia irresponsabile ad esercitare qualsiasi influenza sull’educando. Se le cose stanno così, è difficile contestare l’idea di autorità. Ma c’è qualcosa che non torna. Se il permissivismo non è il contrario dell’autorità, ma ne costituisce la degenerazione (e credo che sia in effetti così), in cosa consiste una educazione non autoritaria?

Riconsideriamo il modello della relazione educativa. Vi sono A e B. Poniamo che A, l’educatore, non si consideri ad un livello superiore a B. C’è il rischio che scompaia il dinamismo dell’educazione. A e B potranno essere compagni di giochi, non persone impegnate in una relazione educativa, perché manca il verso-dove. Poniamo però che A, invece di proporsi e concepirsi come modello educativo di B, sia lui stesso in cammino. Questo fatto imprevisto reintroduce il dinamismo all’interno della relazione educativa. In questo caso abbiamo due persone che sono in cammino. Non più B procede verso A, che è il suo modello, ma A e B procedono verso un punto ulteriore. Detto in modo più concreto: l’educatore non è più il termine della relazione educativa, ma colui che accompagna l’educando in un processo di crescita che riguarda anche lui stesso.  Per questa via l’educazione si fa concreta, poiché non è più solo la crescita dell’educando, ma la crescita comune, la cum-crescita, dell’educatore e dell’educando.

Quello appena delineato è il modello di una educazione non autoritaria. Restano, nella relazione educativa non autoritaria, tutte le differenze legate alla cultura ed all’esperienza, ma esse non giustificano più alcuna simmetria, perché l’educatore sa che la sua cultura e la sua esperienza sono insufficienti, necessarie di ulteriori integrazioni, di nuovo cammino.

Nella concezione autoritaria e neo-autoritaria, l’educazione è sostanzialmente un travaso di esperienza e di conoscenza da una generazione all’altra. L’autorità rappresenta e garantisce la continuità di una tradizione. Essa, scrive Pati, è «l’unico modo per incamminarsi positivamente con le nuove generazioni verso un futuro di cui si ignorano i contorni, ma che proprio per tale ragione chiede di essere costruito sotto il segno della continuità e delle scelte di valore» (p. 31). Ma è possibile un incamminarsi con in una relazione asimmetrica? Ed è la continuità, ciò di cui abbiamo bisogno? Ciò di cui si avverte il bisogno, oggi, sono scelte di rottura, di discontinuità con il passato. Dalla nostra tradizione abbiamo ricevuto i valori umanistici, che sono preziosi e vanno preservati, ma che non hanno impedito all’occidente di procedere verso la violenza (le due guerre mondiali, i campi di concentramento e l’atomica dovrebbero essere sempre presenti alla coscienza di chi oggi riflette sull’educazione), verso la sopraffazione dei paesi più deboli, verso la distruzione dell’ambiente. Occorrono oggi nuovi valori, nuove scelte. Nel modello non autoritario, l’educazione è una riorganizzazione dell’esperienza, una critica del passato e del presente, un vaglio attento dei valori. Elemento vitale del processo non sono la custodia dei valori del passato e il rispetto della tradizione, ma la tensione verso il futuro e l’attenzione al presente.

Per i neo-autoritari, l’autorità non è un fine, ma un mezzo. Essa serve a condurre alla libertà ed al governo di sé. Una volta raggiunto questo scopo, essa scompare. Come scrive Luigi Pati, essa «attraverso un primigenio legame di subordinazione, dipendenza, ubbidienza, ha da favorire la conquista di livelli sempre più alti di libertà personale» (p. 29), mentre Prenna evoca l’autorità liberatrice di Laberthonnière (p. 44). L’autorità non come opposto della libertà, ma come via alla libertà. Qui bisogna intendersi, evidentemente, su cosa si intende per libertà. Se lo si chiede ad un adolescente, risponderà senza troppi dubbi: libertà è fare quello che si vuole. Questo è per Pati ed i neo-autoritari un fraintendimento. La vera libertà non è senza condizioni, ma sotto condizione (p. 25). Riflettiamo un momento. Affermando che libertà è fare «ciò che si vuole», l’adolescente caratterizza la libertà come autonomia. Ora, se quell’espressione ci lascia perplessi, è perché ci figuriamo che quello che l’adolescente vuole sia diverso da quello che piace a noi. Immaginiamo alcool, droga, sesso sfrenato. Se l’adolescente, facendo quello che vuole, si dedicasse alle opere pie, non avremmo nulla da ridire. Libertà è darsi da sé la propria legge. Gli autoritari d’ogni tempo sostengono che ciò non è possibile se non attraverso l’eteronomia. Qui si pone evidentemente un problema logico. Sappiamo che esiste una relazione tra il mezzo ed il fine. E’ lecito nutrire qualche perplessità di raggiungere un fine attraverso un mezzo che ne è la negazione. La retorica di questi anni ci ha abituati a termini oscenamente ipocriti, ossimorici, come guerra umanitaria, ma occorre essere davvero in malafede per credere che le armi possano portare qualcosa di diverso dalla distruzione e dalla sopraffazione. E così per l’autorità liberatrice. La libertà cui si giunge attraverso l’autorità è una libertà finta. La libertà di chi può andare apparentemente dove vuole, in realtà è costretto ad andare dove vogliono gli altri, poiché gli è stato mostrato un solo percorso, e non ha la mappa per orientarsi al di fuori di esso (o è troppo terrorizzato per farlo).  L’autonomia e l’eteronomia coincidono.  La legge degli altri è stata interiorizzata ed è diventata la propria legge. Solo quando è certo che questa operazione sia conclusa, l’educatore molla la presa. Non ha più bisogno di chiedere ubbidienza. Ormai l’educando può obbedire a sé stesso. Ha interiorizzato l’autorità, ha in sé l’alter cui ubbidire.

Questa autonomia è una beffa. Non v’è autentica autonomia che non sia anche, in qualche misura, neonomia, ricerca di un nuovo nomos e di un nuovo ethos. La persona realmente autonoma e libera non è quella che fa propri le leggi, le regole, i valori della sua società, ma quella che li passa al vaglio, li esamina attentamente e criticamente, ne accetta alcuni, ne rifiuta altri, ne crea di nuovi. Alla libertà si giunge solo attraverso la libertà. Non quella finta di Rousseau e di buona parte della pedagogia moderna e contemporanea che si pretende progressista, né quella altrettanto finta dell’evasione e della diversione, ma quella impegnata, difficile, sofferta di persone che insieme, esponendosi costantemente al rischio dell’errore e dell’inganno, ma aprendosi anche alla possibilità di imbattersi in qualche verità, ricercano, esplorano, valutano, costruiscono. E distruggono. 
di Antonio Vigilante

Articolo pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura,  Anno II, Numero 3

Aa. Vv., Ripensare l’autorità. Riflessioni pedagogiche e proposte educative, a cura di L. Pati e L. Prenna, Guerini, Milano 2008. Le osservazioni che seguono riguardano soprattutto i saggi di Luigi Pati, Lino Prenna e Vanna Iori.  Altri interventi, come quella di Luisa Santelli, esprimono posizioni più sfumate. –  www.filosofico.net

 

    Redazione
(07/01/2015)

 

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