Pascarelli, il Risorgimento Incompiuto

Incontriamo  il prof. Cosimo Pascarelli, appassionato ricercatore per la storia meridionale . Il suo ultimo lavoro :  “ Il Risorgimento Incompiuto” ,  ha suscitato l’interesse della stampa e della  critica,  ha  accompagnato i lettori, amanti della storia,  dal Risorgimento all’anniversario del 150° dell’Unita D’Italia. 150’anni fa comandavano il Re e i baroni, oggi comandano l’associazione del malaffare.
di Michele Luongo

 

Pascarelli-Risorgimento
Pascarelli, Il Risorgimento Incompiuto

“Il Risorgimento incompiuto” il suo libro uscito nel 2009 , ed. Iuculano,  mette in risalto le tensioni rivoluzionarie per un’Italia Unita.  Oggi ritiene che abbiamo smarrito i valori per la Patria? <<O tempora! O mores!>>, avrebbe detto Cicerone. Il problema della “caduta” dei valori è complesso e sistemico. Si sa che nel corso del tempo i popoli/le persone, nel loro agire, hanno lasciato i risultati (i segni dei tempi) relativi al modo di pensare, al modo di vivere e della fede in qualcosa – non escluso il familismo amorale – ed il credere in determinati valori basilari: la persona, la famiglia, lo Stato, la Patria, la Chiesa, la civile convivenza ed il rispetto dell’altro, ecc.). Così facendo hanno lasciato ai posteri l’eredità delle azioni compiute: nel bene e nel male. Oggi in Italia (così come in altri Paesi) ci troviamo in una crisi dei valori molto profonda, assai diffusa: manca soprattutto la capacità di educare, di orientare, di incoraggiare e stimolare al fare, per sconfiggere la passività. Siamo in un “paesaggio desolato”, si vive nel  “disamore”, nell’ “appiattimento” dilagante, nell’assenza di slancio e di coraggio al fare, manca lo spirito di intraprendenza, ci si affida alla “delega cieca”.  Siamo in presenza di una “rarefazione di energie” vitali,  “disordine continuato”, assenza di pudore, di dignità e di decoro, quasi in uno stato “entropico”; ottusità dei propri ruoli e quindi alla “de-istituzionalizzazione”, un Governo della “cosa pubblica” privo di buon esempio, di passione, di sogni positivi per tutto il Paese. Però, a fronte di tanta crisi, bisogna avere fiducia nelle risorse interiori degli italiani, non solo in senso razionale e logico, ma anche nel sapere ridestare ciò che c’è di istintivo, emozioni vere, creatività immediata, sani comportamenti , il valore Patria – Coscienza.

Il suo saggio è caratterizzato da importante documentazione, frutto di una meticolosa ricerca, questa  esperienza storica cosa le ha trasmesso ? La storia è soprattutto memoria, ricordo, ossia è richiamo,  rievocazione di un’identità e di uno status esistiti, è proiezione per il futuro, e le categorie dello statuto epistemologico della storia devono essere soddisfatte mediante l’esibizione di documenti obiettivi, commentati in modo puntuale e senza deformazione e/o contaminazione: vale a dire che i documenti non possono e non debbono avere un senso ed un significato per lo storico che si etichetta di sinistra ed un altro senso e significato per lo storico che si etichetta di destra. Il documento non va politicizzato/ideologizzato, ma soggiace in modo rigoroso ad un senso, ad un significato e ad una congruenza contestuale di riferimento. In questo senso, il revisionismo in atto la dice lunga!

Al momento dell’insurrezione di Pisacane, la dottrina, gli ideali mazziniani , nel Meridione d’Italia, secondo lei, erano ancora sconosciuti? Giuseppe Mazzini viene preso dalla passione e dall’amore dei suoi ideali per un’Italia unita, per una Patria del Popolo e Indipendente ( fatta di libertà, di uguaglianza, di diritti e doveri, di fratellanza) già dal marzo 1821, quando aveva appena sedici anni. Poi, nel 1827, entra a far parte della Carboneria, alternando, da allora in poi, la sua attività di cospiratore e di organizzatore delle “insorgenze” contro i “Tiranni” dei sette Stati italiani, con arresti in carcere (1831) e fughe all’estero: soprattutto a Marsiglia, Svizzera e a Londra. Infatti, dopo gli eventi molto infelici del 1833 e quelli del 1834, con Giuseppe Garibaldi in Savoia ed a Genova. Egli si pone, appena dopo il 1834, il problema di una politica delle “insorgenze” in Italia Meridionale (creando, dopo la Giovane Italia, la Giovane Europa perché nel suo disegno di apostolato repubblicano prevedeva un’ Europa fatta di tante Nazioni senza Sovrani o Stati sopranazionali, ma affidate ai rispettivi Popoli). Uno dei tanti episodi, isolato, comunque non previsto dal Mazzini, fu quello disastroso dei Fratelli Attilio ed Emilio Bandiera in Calabria (1844), proprio fallito perché ancora non vi erano suoi seguaci nel Sud dell’Italia. Quindi fino a quella data non vi erano ancora organizzazioni mazziniane strutturate ed operative, ma solo sentori presso le Università meridionali. Giuseppe Mazzini, convinto sempre di più che la lotta politica per l’Unità d’Italia, con il suo fascino e la sua empatia penetrava lentamente dappertutto, poco prima dei Moti del 1848 e 1849 crea l’Associazione Nazionale Italiana e, successivamente, una prima presenza di organizzazione mazziniana a Napoli con il Comitato Segreto di Napoli (Luigi De Monte), che era collegato con Genova, e la Basilicata (con i fratelli Giacinto e Nicola Albini – Montemurro (PZ ) – (Luigi de Monte, Cronaca del Comitato Segreto di Napoli sulla Spedizione di Sapri, Napoli, 1877). Sarà proprio con il lavoro capillare e segreto di questo Comitato che si preparerà la Spedizione di Sapri del 27 Giugno 1857 in concomitanza con Genova e Livorno, voluta dal Mazzini e dal Pisacane. L’azione politica mazziniana viene svolta anche come alternativa al Federalismo di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, del Gioberi ed altri fautori ancora.   

Giuseppe Mazzini, Carlo Pisacane,   prove tecniche per l’Unità d’Italia?
Questo concetto mi sembra più che giusto: ma da questo stato di cose non va escluso lo stesso Giuseppe Garibaldi: per le prove tecniche nelle insorgenze sono stati entrambi dilettanti allo sbaraglio! I Patrioti del Risorgimento italiano, in considerazione delle organizzazioni segrete per la lotta contro i Sovrani dei sette Stati del territorio italiano, non erano in possesso di certezze nelle azioni insurrezionali. Per cui ogni insorgenza era un caso nuovo e si trattava di procedere, spesso, facendo tesoro e traendo ragione e  suggerimenti dagli errori commessi nelle precedenti, a causa dell’imperizia organizzativa, mancanza di una giusta rete di supporto e di adeguati mezzi logistici per l’informazione: erano dei veri ed abili improvvisatori. Quello che bisogna apprezzare, ancora oggi per allora, è soprattutto il possesso di una fede profonda, la determinazione, la lungimiranza per gli obiettivi sociali e civili (contro il privilegio politico, emancipare le comunità dall’ignoranza, debellare la superstizione, ammodernare l’ordinamento legislativo), non escluso il calcolo e la convinzione per la precarietà della propria salute e l’incolumità della vita. Sono stati uomini illuminati, pieni di ardore, di fulgida passione e di altruismo

Lo sbarco  all’Isola di Ponza di Pisacane e la liberazione dei detenuti  dal locale luogo di detenzione, è stato un errore fatale  per la riuscita della sua insurrezione?
Lo sbarco all’Isola di Ponza da parte del Pisacane non è stato un errore, bensì una necessità ed il frutto di una sua intuizione geniale (in quanto tale), ma sfortunata (in accordo con i compagni patrioti) dopo il tradimento da parte di Rosalino Pilo nelle acque della Liguria.  Pisacane, cambiando la rotta prevista per l’ approdo all’Isola di Ventotene (LT), pur di non mandare in fumo l’organizzazione che era stata capillare da parte dei patrioti tra Napoli e Montemurro (PZ), decise di approdare con il Cagliari a Ponza, dove, purtroppo, i relegati erano soprattutto detenuti per reati comuni; erano pochi i relegati per reati politici. Sicché, tra i “Trecento” (324) vennero a mancare le prerogative di base e alcuni ingredienti necessari allo scopo della spedizione, cioè era basso “l’ardore patriottico e mancava la consapevolezza politica e militare, la passione autentica, la determinazione, la combattività. Inoltre, l’approdo a Ponza serviva anche per il rifornimento di vettovagliamento e di armi per sopperire al mancato approvvigionamento da parte di Rosalino Pilo.

L’azione di Carlo Pisacane e di Giuseppe Garibaldi, inizialmente, paradossalmente , hanno quasi le stesse caratteristiche. Pensa che a Pisacane sia mancata la strategia e l’interesse della politica ?
Si tratta, sostanzialmente, di due episodi distinti e separati come tanti altri pregressi, di cui è quello meno fortunato, ossia quello del Pisacane, che servirà, sul piano psicologico, da “indotto” / da “catalizzatore” a quello di Giuseppe Garibaldi nella spedizione dei Mille. Inoltre, c’è stata un’altra differenza sostanziale: mentre per la spedizione di Sapri il Pisacane non godeva del supporto e dell’appoggio di base di uno dei Sovrani dei piccoli Stati italiani – perché le insorgenze per il Mazzini dovevano essere popolari e senza l’appoggio di un qualsiasi Sovrano: questo è il patriottismo repubblicano, mazziniano. Per la spedizione dei Mille, invece, Giuseppe Garibaldi godeva della consapevolezza della Casa Sabauda (Cavour), del vigile osservatorio delle Autorità interne ed estere, senza interferire. Carlo Pisacane, Ufficiale militare dell’esercito borbonico, che si era formato alla Scuola Militare della “Nunziatella”, era più che preparato anche sul piano strategico, però nel corso dei preparativi per la spedizione nel Cilento, a fronte di una reale ed attiva organizzazione, si sono verificate diverse circostanze controproducenti: non solo quella di Rosalino Pilo, ma anche da parte di uomini (delatori), “infiltrati”  e senza scrupoli che hanno agito con l’inganno e l’ipocrisia: intascavano i soldi dell’organizzazione per agire e poi si trasformavano in traditori (è quanto risulta dai documenti del Comitato Segreto di Napoli e, quindi, dai rapporti epistolari con i fratelli Nicola e Giacinto Albini, Patrioti lucani di Montemurro PZ ).        

Nel 1911  l’Italia festeggiò i suoi primi 50 anni e si sottolineò che la Romanitas unisce,  nel 1961  il primo centenario con due guerre alle spalle, e l’Italia divisa tra democristiani e comunisti ed altri partiti, ma si era di certo italiani. Oggi , cosa significa festeggiare  il 150° dell’Unità d’Italia?
<<Faber est suae quisque fortunae>> (Ogni uomo è artefice della sua fortuna – Sallustio). Come dire, gli italiani sono stati artefici della propria Patria, lo sono ancora e lo saranno sempre, sia pure con l’alternanza di momenti  tranquilli e di crescita con momenti meno favorevoli sul piano sociale, politico e produttivo e qualche difficoltà in più nella coesione umana e civile, forse come nei nostri giorni, a causa di un eccesso di faziosità e di lacerazione partitocratica. La celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia, come quello della “Shoah”, serve a  testare il livello di informazione, di riflessione e di atteggiamento di un Popolo per verificare il “tasso” di umanità, di unione e di coesione e di compattezza nei Valori alti e indissolubili: la Patria. Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia significa soprattutto che ogni cittadino, dal più piccolo al più anziano, abbia autostima nella propria persona, fiducia e fedeltà in sé stesso e nella propria famiglia, nella propria comunità e territorio. Rifuggendo da qualsiasi “ritualità” e ragioni di circostanza, a tonificare il patriottismo dovrà essere cura di tutte le istituzioni, a partire dalla famiglia, dalla scuola, dalla società civile, dalle Forze Armate Nazionali, dalla Chiesa e dallo Stato, mediante il “Credo”, la “Fede” e la “Speranza” operativa e proiettiva in tutta la simbologia positiva cresciuta nel tempo con il tricolore della nostra bandiera, con gli altari ed i monumenti in onore dei sacrifici dei caduti per la difesa del nostro Paese e della cultura poetica/letteraria, canoro/musicale, pittorica, espressiva, artistica e teatrale/cinematografica. Questa è la Patria! L’orgoglio nazionale e la volontà di difesa per il mantenimento del patrimonio dei Valori acquisiti sono in stretta relazione, e danno luogo allo spirito di solidarietà sociale e civile che consente di affrontare al meglio la nostra conservazione e crescita, anche in concomitanza dei cambiamenti e delle innovazioni ricorrenti, con lungimiranza e intelligenza, abbattendo gli atteggiamenti e le posizioni separatiste e antitetiche.   

Quale differenza c’è, secondo lei, tra la realtà sociale del Sud di Pisacane e la realtà sociale dell’attuale Sud ?
Al di là dei luoghi comuni, circa la povertà e l’indigenza diffuse nei paesi e nelle campagne periferiche al tempo dei Baroni borbonici nel Meridione d’Italia, secondo me, sono due scenari diversi con una distanza di 150’anni che, purtroppo, conservano delle “costanti” di percezione e d’immagine, beninteso con il dovuto “distinguo”.  Da allora ad oggi c’è stata una trasformazione dell’esistente sul piano umano e materiale, dovuta alla tecnologia ed allo sviluppo scientifico ,  ma, in un certo senso, ancora non c’è stato il cambiamento decisivo .  E’  mancato e manca  il recupero e la difesa del patrimonio per una più coesa civile convivenza umana e sociale , E’ costante  la corruzione nel privato e nell’ amministrazione e gestione della cosa pubblica . Come dire, la Pubblica Amministrazione diventa ostaggio del malcostume, degli abusi della partitocrazia e delle rispettive connivenze negative. Dunque, 150’anni fa comandavano (in senso assoluto) il Re e i baroni, oggi comandano l’associazione del malaffare e la classe dirigente  “gestore” dei partiti, entrambi noncuranti dei bisogni della comunità, ma addirittura ostacolando e danneggiando, come dicevo in apertura, l’originalità e l’ operosità produttiva (che riscuote ammirazione e stima anche all’estero) di tanta brava gente in tutto il Mezzogiorno, come nel resto d’Italia. A fronte di quanto premesso, nonostante tutto, si può dire che se allora i “legni a vapore” del Regno delle due Sicilie detenevano il “primato” dopo gli inglesi, oggi possiamo farci vanto su più versanti per il pregiato “made in Italy” prodotto nel Sud dell’Italia.

C’è una variopinta linea culturale  che condanna il lamentarsi continuo, il piangersi addosso del Sud e si  chiede come  mai non ci sia un “colpo di reni,  un risveglio”. Secondo lei, cosa ostacola la crescita del  Sud?
Nell’Italia Meridionale ci sono delle potenziali ricchezze economiche e culturali che fanno invidia alle altre Nazioni europee (le spiagge, i paesaggi , le chiese e le cattedrali, castelli e Musei, l’unicità della ricchezza archeologica della “Magna Grascia”, il clima, l’aria tersa delle campagne e delle montagne dell’Appennino, la particolare gastronomia ed i gusti di alcuni alimenti dell’agricoltura e dell’allevamento, la ricchezza dei giacimenti di idrocarburi e metano), ma la dirigenza politica, dall’Unità d’Italia ad oggi, soffrendo di miopia e strabismo imprenditoriale ha continuamente mortificato.  Non ha saputo e non riesce  ancora oggi a percepire, apprezzare, valutare e gestire per un decollo produttivo organico, globale ed in armonia con l’adeguamento delle strutture ed infrastrutture del territorio di riferimento. Manca la cultura della logistica, della pianificazione strategica, della segmentazione delle opportunità produttive e dei servizi, probabilmente per scarsa cultura dello spirito d’impresa (lo spirito d’intraprendenza è la base di tutto), dell’atteggiamento riflessivo, dell’apprendimento generativo, di relazioni ed interdipendenze tra le varie istituzioni: potere politico, potere economico, Università ed informazione/comunicazione. Supinamente, si è fatto molto uso della retorica plateale, esibizionista, negligente e improduttiva, della previsione di cattedrali nel deserto, antitetiche e consone alla vocazione e al reale sviluppo, fra speculazione e parassitismo. Inoltre, mancanza di coscienza, di dignità e di quella giusta dose di decoro rispetto al mandato ricevuto. Sembrerà un paradosso, le banche nell’Italia Meridionale scoppiano di moneta (risparmi) che giace senza un proficuo investimento. L’unico progetto possibile è l’immobilismo ad interim. Adesso le cose sembrano veramente essersi degradate ed aggravate al punto che si parla di fase del non ritorno: per cui bisognerà tenersi per mano nel girotondo con l’Africa (Francesco Delzìo, La scossa. Sei proposte shock per la rinascita del Sud, 2010).

La  famosa frase  di Massimo D’Azeglio: <<fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani>>,  è superata o  trova ancora la sua attualità?
Indubbiamente, lo scopo del Risorgimento Italiano, in funzione della costituzione di uno Stato Unitario Nazionale sulla scia della Rivoluzione Francese (1789), doveva servire al cambiamento ed all’innovazione del modo di pensare, del modo di organizzarsi e produrre nel settore economico e così pure in altri contesti della società, rispetto al modello dell’Antico Regime (Ancien Régime) anacronistico di qualche secolo.  Per cui il Risorgimento doveva rappresentare una rivoluzione globale, con nuovi modelli e stili di vita per tutte le comunità degli Stati che entravano a far parte dell’Unità d’Italia. Però, in considerazione della disparità dello “status” organizzativo, sociale e civile dei vari Stati di cui sopra, già il primo Governo dell’Italia Unita si rese  conto che, con l’obbligo scolastico, <<fatta l’Italia – bisognava – fare gli italiani>>. Ovviamente, l’arretratezza sociale ed economica e l’analfabetismo dilagante nelle popolazioni degli ex piccoli Stati autonomi si presentava in misura e carattere diversi nei rispettivi contesti nazionali (Nord, Centro, Sud) e di tre tipi: “analfabetismo primario strumentale”, ossia imparare a legge, scrivere e fare di conto;  “analfabetismo funzionale”, ossia sapersi anche documentare e il cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, ossia in presenza di cambiamento continuo – nel corso degli anni – bisognava imparare a cambiare “abito mentale”, volta per volta.  Ma, sia beninteso, tale problema si sarebbe presentato, comunque, anche in presenza di un modello di Stato di tipo “federale” oppure “repubblicano”, ecc..
Per cui l’espressione storica: <<fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani>> era obbligatoria. Tant’è che all’espressione del D’Azeglio segue, nel tempo, un ulteriore supporto ed enfasi in un articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, con il richiamo all’obbligo scolastico per tutti i cittadini dai 6 ai 14 anni, attraverso la Premessa ai Programmi della Scuola Elementare del 1955 con l’ affermazione: la « Civiltà di un popolo si misura dalla sua cultura di base ». Per quanto riguarda l’attualità, premesso che già nel 1888 i Programmi della Scuola Elementare – a firma del Ministro Aristide Gabelli – avevano quale obiettivo: <<formare lo strumento testa>>, sarebbe ancora opportuno una “sferzata” di vero/severo rigore morale, etico e comportamentale, a tutti i livelli – e non solo nella scuola, perché tutta la vita è scuola  – attraverso “l’assiduo esercizio della riflessione che vuol essere adoperata nella ricerca, nell’esame e nel giudizio dei fatti”. Le astrazioni normative/imperative hanno bisogno di essere interiorizzate e ben metabolizzate, prima di agire, per non permanere nella “retorica”. Chi fa cosa è sempre l’agire umano! Non la legge astratta! Si tratta di abbandonare l’episodicità ed affidarsi al fare sistema con sistematicità.

Nei momenti di crisi, in assenza di una politica concreta che realizzi, spuntano movimenti e pseudo partiti  politici che prospettano la divisione o gli interessi di una sola parte . E’ pura retrocrazia politica, rispetto alla realtà Unitaria dell’Italia?
 
…Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
(Dante Alighieri, Purgatorio, Canto VI )

<<Mores et leges Maiorum>> (I comportamenti accreditati e le leggi dei Grandi – espressione della Roma antica) evocavano nell’immaginario collettivo dei romani il fondamento per farsi guidare nella vita e nelle decisioni importanti, ossia richiamarsi ai modelli di vita corretti e condivisi degli uomini grandi che, lentamente nel tempo, avevano reso possibile il passaggio sociale dallo status delle tribù all’umanizzazione della vita comunitaria dell’urbs, percepita: organizzata, produttiva e civile.  Certo, pure allora accadeva che qualcuno si lasciasse prendere dal vizio del potere e del malcostume. Sorvolo l’iter storico dei passaggi evolutivi della gestione della cosa pubblica (Imperatore (Dux), Principe, le Monarchie parlamentari, fino ad arrivare ai Parlamenti Costituzionali, Repubblicani e Democratici), ma un certo deterioramento della  gestione della cosa pubblica in modo particolare – nonostante sia da considerarla una valida e giusta conquista da parte delle popolazioni nei confronti dei “tiranni” – ha inizio da quando il Re Francese Luigi XVI, il 28 agosto del 1789, riunì l’Assemblea Costituente degli Stati Generali per affrontare a Versailles il confronto/la discussione sul diritto di veto del Re. In quella sede i fautori di questo riconoscimento al Re si sedettero alla sua “destra”, quelli che erano contrari a tale riconoscimento si sedettero alla sua “sinistra”.
Da allora e tuttora gli schieramenti politici si servono di tale assunto settecentesco e grottesco, un feticcio squisitamente “topografico” e conservano tali “etichette”: anzi le etichette nella nostra bella e grande Italia, soprattutto da qualche decennio a questa parte, si sono moltiplicate a dismisura, e dipende da chi si alza prima la mattina (si va dalla sinistra alla proliferazione di tante sinistre ed alle estreme sinistre e così dicasi pure della destra e degli “intrugli” del centro). Un altro colpo di grazia, in questo senso, è stato dato dopo la filosofia di Emanuele Kant da un altro pensatore, pure tedesco, G. W. Friedrich Hegel che David Strass definì “destra” e “sinistra” hegeliana, richiamandosi a quanto era successo in Francia con il Re Luigi XVI. Domanda: è plausibile ancora nei nostri tempi sopportare un Parlamento composto da uomini di cultura, da intellettuali – alcuni anche di grosso calibro scientifico e morale –  trascinato ancora da queste “etichette” e da questi “vezzi” topografici privi di fondamenti problematici rispetto alla realtà, a cui non ci crede più neanche l’attuale Presidente della Camera Gianfranco Fini?

Cosa centrano ancora queste etichette con la buona amministrazione dei problemi di grande responsabilità della cosa pubblica e che, tra le altre cose, danno solamente vergognosi spettacoli, con grande danno per l’erario e per la stabilità del Paese, ossia per le tasche di tutta la nazione. È questione di “personalità”, è la natura umana che conta, è lo spessore professionale che fa la differenza e non le “etichette” e tanto meno il “logo” di ciascuna componente politica, vuoto di senso e di significato e non congruente con il ruolo da svolgere. Si è inventato persino il “mestiere del politico”, che potrebbe valere quanto la vincita di un “Super Enalotto”. Questo male può essere affrontato e sconfitto da una buona educazione, istruzione e formazione, è questione di mentalità. Tutte le cose sul nostro Pianeta, dopo il Creato, nel bene e nel male, sono opera dell’uomo!

Il Risorgimento Incompiuto di Cosimo Pascarelli , Ed. Iuculano, 2009, Pavia, Pagg. 247 – Eur0 21,00, ISBN 978-88-7072-821-7

 

di Michele Luongo   ©Riproduzione riservata
                  (27/01/2011

 

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