Per una cultura liberale

Per una cultura liberale. Cinque libri per il liberalismo. La cultura statalista ha tratti storici che risalgono al fascismo e, successivamente, nel dopoguerra, all’assistenzialismo democristiano e alla pratica politica e sindacale del più grande e influente Partito Comunista del mondo occidentale.
di Diego Zandel 

Per una cultura liberale Per una cultura liberale. Cinque libri per il liberalismo. Uno spettro si aggira per il mondo, che sembra essere la causa di tutti i mali e, ancora un po’, gli appiopperanno anche la pandemia del Covid 19. Parliamo di quello che viene definito “neoliberismo”, ovvero il liberalismo applicato all’economia, termine in uso in realtà solo in Italia. Con questo termine s’intende sostanzialmente l’economia di mercato che, in un contesto di critica all’intervento dello Stato nell’economia, si basa su due regole chiare: no ai monopoli e si alla concorrenza.

Per una sua accezione più ampia possiamo citare quanto scrive Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, il centro studi che promuove le “idee per il libero mercato”, nella prefazione al libro “Sciabole e Utopie” (Liberilibri editore) di uno scrittore come Mario Vargas Llosa, Premio Nobel della letteratura nel 2010 e grande promotore del liberalismo: “La convinzione centrale del liberalismo è che pochi principi giuridici, in buona sostanza diritti di proprietà privata e rispetto dei contratti, possono ‘garantire un adattamento reciproco delle azioni dei singoli individui’ che mette gli uomini in condizione di ‘rendersi reciprocamente utili’ pur ‘mantenendo ciascuno i suoi scopi’: c’è nulla di più controintuitivo?” (le parole in corsivo Mingardi le ha tratte da “Liberalismo” di Friedrich A. von Hayek, pensatore liberale ed economista, uno dei massimi esponenti della scuola austriaca, del quale è studioso).

Perché allora tutte queste accuse al liberalismo economico, al punto da essere diventate un refrain?  Nasce quasi il sospetto che avvengano proprio per far più facilmente passare, da parte della politica, l’interventismo statale che, in effetti, sta sempre più pervadendo l’economia e, attraverso questa, la società nel suo complesso come forse mai è stato prima nel mondo occidentale del dopoguerra, in modo particolare in Italia, dove la pandemia ha sicuramente accelerato un processo già in atto.

Nel nostro Paese, infatti, la cultura statalista ha tratti storici che risalgono al fascismo e, successivamente, nel dopoguerra, all’assistenzialismo democristiano e alla pratica politica e sindacale del più grande e influente Partito Comunista del mondo occidentale. Non è un caso che in Italia non trovino spazio partiti e movimenti liberali, e se nell’immediato dopoguerra lo hanno avuto è stato minimo, sia a destra come a sinistra.

Croce, Einaudi, finché hanno fatto sentire la loro influenza culturale hanno consentito a un Partito Liberale di esistere, mentre a sinistra esperienze come quelle del Partito Radicale e, prima di questo, come quelle del Partito d’Azione, sono state importanti, legate a battaglie che sono servite per lo più a modernizzare i costumi e a introdurre nel Paese fondamentali diritti civili, ma con scarsa incidenza sull’affermazione della economia di mercato. Questa, peraltro, se c’è stata, da noi si è caratterizzata non in chiave strettamente liberale bensì in forma di capitalismo di relazione, ovvero di uno stretto rapporto tra i grandi imprenditori e la politica. Cartina di tornasole è stata l’occasione delle cosiddette privatizzazioni, attuate non in un’ottica liberalizzatrice, bensì di semplice privatizzazione con l’aggiudicamento di aziende di proprietà azionaria pubblica a imprenditori amici del governo in carica (esemplare il caso Telecom Italia o l’affidamento della fallita Alitalia alla cordata dei cosiddetti “capitani coraggiosi” per arrivare all’ultimo escamotage statalista con la sua nazionalizzazione). Non siamo forse ancora ai livelli della Cina dove gli imprenditori sono strettamente legati alle direttive del Partito-Stato, o  di tutti quegli Stati, dalla Turchia alla Russia e alle altre repubbliche ex sovietiche dove gli imprenditori, se mai possano essere definiti tali, sono legati a filo doppio con l’autocrate di turno, prefigurando una distorsione del mercato (così come fu con i regimi fascista e nazista).

In questo quadro, e tornando all’Italia, ben vengano dunque i libri, ancora pochi, che diffondono la cultura liberale. Indico, innanzitutto i libri del già citato Alberto Mingardi, entrambi usciti con l’editore Marsilio, il primo lo scorso anno, dal titolo “La verità, vi prego, sul neoliberismo” che, partendo dal pregiudizio che circonda ormai la parola – quasi essa fosse quella che, una volta pronunciata, “smaschera i responsabili” rivelandosi “una sorta di instrumentum regni con cui un’èlite spregiudicata si è aggiudicata il controllo della società” – entra poi, nel corso della narrazione, profondamente nel merito dimostrando in circa 400 pagine che, in realtà, le “politiche di liberalizzazioni e deregulation, restano sostanzialmente una rarità in molti paesi occidentali”; il secondo libro di Mingardi, in libreria in questi giorni, è “Contro la tribù.

Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna”, un saggio su uno dei maggiori pensatori liberali, Friedrich August von Hayek, che vede nel perseguimento di una presunta giustizia sociale da parte delle nuove forme di “tribalismo” (nazionalismo, protezionismo, sovranismo) e nel loro attacco all’economia di mercato gravi rischi per il modello di società aperta e plurale a cui l’occidente ha teso fino ad oggi.

Per una cultura liberale. Ma già questi due libri sono opera di uno specialista e, quindi, come dire, adatti a un pubblico meno generalista. Per i lettori più curiosi, desiderosi di capire un fenomeno a cui i fautori di ogni colore dello statalismo imputano tutte le colpe in nome di un disegno che vedrebbe nel presunto mercato libero i guasti che hanno portato i ricchi ad essere sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, suggerisco invece tre libri di non specialisti. Due del già citato scrittore peruviano Mario Vargas Llosa recentemente in libreria con due titoli sull’argomento “Il richiamo della tribù”, edito da Einaudi, che ripercorre qui le tappe del suo percorso politico “da una giovinezza impregnata di marxismo e di esistenzialismo sartriano al liberalismo della maturità attraverso la rivalutazione della democrazia, alla quale contribuì la lettura di scrittori come Albert Camus, George Orwell e Arthur Koestler.”

Più naturalmente le letture dei pensatori liberali, a sette dei quali sono dedicati la maggior parte dei capitoli compresi nel libro, ovviamente interpretati per noi sempre alla luce della propria esperienza personale. Ma non meno importante in questo percorso esistenziale è proprio il confronto della sua posizione attuale con il marxismo e la passione per la rivoluzione cubana, vista all’inizio in buona fede non soltanto come “un’avventura eroica e generosa, di combattenti idealisti che volevano porre fine a una dittatura corrotta come quella di Batista, ma anche un socialismo non settario, che avrebbe consentito la critica, il dissenso e persino la dissidenza. Era ciò che credevano molti di noi e ciò che nei primi anni assicurò alla Rivoluzione cubana un sostegno così grande in tutto il mondo”. Ma poi, agli inizi degli anni Settanta, accadde il contrario, con il primo caso di rilievo, il cosiddetto “caso Padilla”, inteso come Herberto Padilla, poeta, uomo della Rivoluzione, già viceministro del Commercio estero, che si trovò a muovere delle critiche alla politica culturale del regime castrista che, dopo i primi attacchi da parte della stampa ufficiale, lo portarono in carcere con l’accusa di essere un agente della Cia.

Vargas Llosa si mosse a livello internazionale in sua difesa promuovendo una lettera di protesta a firma di Juan e Luis Goytisolo, Hans Magnus Enzesberger e Josè Maria Castellet, alle quali si unirono ben presto le firme di Sartre, della de Beavour, Susan Sontag, Alberto Moravia, Carlos Fuentes, lettera che provocò l’anatema di Fidel Castro contro di loro, dando vita a una”campagna ignominiosa della quale fui oggetto”.

Seguì, racconta Vargas Llosa “un periodo di incertezze e di ripensamenti in cui, a poco a poco, compresi che le ‘liberta formali’ della presunta democrazia borghese non erano una mera facciata che nascondeva lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, bensì lo spartiacque fra i diritti umani, la libertà d’espressione, l’eterogeneità politica e un sistema autoritario e repressivo nel quale, in nome di una verità unica rappresentata dal partito comunista e dai suoi gerarchi, si poteva mettere a tacere ogni forma critica, imporre istruzioni dogmatiche, seppellire i dissidenti nei campi di concentramento, e persino toglierli di mezzo”. Nonostante le tante imperfezioni il liberalismo fu la scelta, lungo un percorso durato diversi anni, alla quale Vargas Llosa pervenne, aiutato dal fatto di vivere allora in Inghilterra dove assistette prima alla deriva statalista e collettivista provocata dalle riforme laburiste che avevano spento e fatto sprofondare il Paese nel letargo di una grigia mediocrità, poi alla grande rinascita seguita all’ascesa nel 1979 di Margaret Thatcher che, nel più rigoroso rispetto dell’ordine giuridico, privatizzò le aziende britanniche, dando impulso a riforme “che in pochi anni trasformarono il Paese nella società più dinamica d’Europa, dando prova, nonostante scioperi e mobilitazioni sociali di chi difendeva vecchie rendite di posizione, di una chiara “affermazione della superiorità morale e materiale della democrazia liberale sul socialismo autoritario, corrotto e fallito dal punto di vista economico, che si riverberò in tutto il mondo”.

Per una cultura liberale. Cinque libri per il liberalismo. Purtroppo, quella della Thatcher, e anche di Reagan negli Usa, fu una stagione molto breve, solo “una fioca luce alla fine di un secolo buio”, per tornare a usare le parole di Alberto Mingardi, per cui se “per un breve periodo, tutti sono stati ‘liberali’ così che nessuno fosse tenuto ad esserlo davvero… adesso hanno smesso il liberalismo come un vestito vecchio, nell’illusione di averne tratto tutto ciò che poteva dare”. Una posizione, da noi aggravata dalla mistificazione che Berlusconi, con la sua politica contraddittoria, ha dato al termine liberale generando confusione a facendo crescere i pregiudizi a riguardo.

Più in generale, comunque, va ricordato che i Paesi dell’est europeo non sono crollati perché brutti e cattivi, ma proprio per l’assenza dell’economia di mercato, conseguenza dell’essere tutti “i mezzi di produzione” proprietà delle Stato, per cui, sottratti i dissidenti, perseguitati e internati dei campi di concentramento e di morte, tutti i cittadini, lavorassero poco o molto, purché ossequiosi del potere, erano mantenuti con uno stipendio minimo che consentisse loro di non morire di fame (a parte, ovviamente, le oligarchie di partito che vivevano nell’agio). In mancanza di un sistema in grado di produrre e, quindi, distribuire ricchezza – i famosi piani quinquennali finivano miseramente per fallire a meno di non ricorrere ai lavori forzati facendo del Paese un’enorme campo di concentramento – si arrivò a una sempre più diffusa povertà, per altro con un indebitamento tale che nel giro di 40 anni (60 per l’Unione Sovietica) portò alla dissoluzione di quei Paesi.

Negli ultimissimi anni, la Germania dell’Est arrivò a un vuoto di casse dello Stato da non riuscire neppure a trarre quel tanto necessario a sostenere l’oligarchia di Partito, trovandosi così costretta a escamotage come vendere sacche di sangue all’occidente, in quegli anni flagellato dall’Aids, barattare i prigionieri politici con la Germania occidentale in cambio di marchi, vendita di armi a qualunque paese, anche fascisti, li pagasse. Altro esempio, la Jugoslavia, dopo la morte di Tito, la cui figura aveva rappresentato un po’ la garanzia dei prestiti che riceveva dall’occidente, che si vide crollare sui propri debiti portando il Paese a un’inflazione del 120 per cento, oltre a una altissima disoccupazione, così favorendo i livori storici tra le diverse repubbliche che componevano la Federativa.

Inutilmente fu avviata, in chiave di mercato, l’esperienza dell’autogestione delle aziende da parte della maestranze, la quale però fu subito gravata dall’obbligo da parte delle repubbliche che producevano di più di aiutare quelle più povere e meno produttive, situazione che alimentò invece di spegnere, nelle reciproche accuse della condizione a cui si era arrivati, quei nazionalismi che portarono alla devastante guerra interna dei primi anni Novanta.

Ma tornando a Vargas Llosa e alla sua autobiografia politica, a “Il richiamo della tribù” va aggiunto il già citato “Sciabole e Utopie” che raccoglie le sue riflessioni sulle esperienze specifiche dell’America Latina, tanto che il sottotitolo del libro è “Visioni dell’America Latina” dove egli ripercorre gli ostacoli allo sviluppo provocati dal comunismo, dal nazionalismo, dal populismo, dall’indigenismo, dalla diffusa corruzione, per pervenire a una concezione di liberalismo per la quale “la libertà è una sola e la libertà politica e la libertà economica sono inseparabili come il dritto e il rovescio di una medaglia”.

Ultimo consiglio, ancora il libro di uno scrittore, in questo caso americano, Adam Gopnik, autore de “Il manifesto del rinoceronte”, sottotitolo “L’avventura del liberalismo”, edito da Guanda. Dove il rinoceronte viene dall’autore preso a simbolo del liberalismo, come l’animale “difficile da amare, buffo da vedere. Non è elegante, ma è un animale assolutamente riuscito” visto che “Le visioni politiche sono per la maggior parte unicorni, creature immaginarie perfette che inseguiamo senza mai trovare”.

Gopnik, romanziere, saggista, vincitore di premi giornalistici importanti, di cui Guanda ha pubblicato in italiano varie opere, affronta il tema in un’ottica molto americana, dove il liberalismo, inteso come un umanesimo in continua evoluzione, si contrappone sia alla destra che alla sinistra radicale (“che in realtà odia i liberali esattamente come li odia la destra”). “Il liberalismo” scrive Gopnik “finisce nell’area di centro non perché quello è il luogo in cui i liberali pensano si trovi il buonsenso, ma perché riconoscono che in una società esistono talmente tante individualità da accogliere, che non è possibile aspettarsi di vederle aggregate in un unico quartiere all’uno o all’altro estremo della città”. E completa il suo ragionamento significativamente con la metafora dell’agorà greco “termine che indicava il mercato ma anche, in senso più lato, il luogo in cui i cittadini si trovavano per incontri non pianificati. I tiranni di ogni genere, persiani e spartani, temevano l’agorà nel modo più letterale, e cercarono di eliminarla dalle loro città.” https://www.lincontro.news

 

 

   di Diego Zandel 
    (08/11/2021)

 

 

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