Un dramma dell’intera sinistra

Qualcuno era comunista. Berlinguer aveva già detto a Mosca che non si poteva fare a meno della libertà, aveva confessato a Pansa che sotto la Nato i comunisti italiani si sentivano più garantiti, aveva ammesso che la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre si era ormai esaurita.
di Alfio Siracusano

 

Fa una certa impressione aprire un libro e leggervi la propria storia. Nel senso che il libro parla d’altro, magari racconta i mesi cruciali in cui il vecchio Pci uscì rumorosamente di scena tra dibattiti infiniti nei suoi luoghi deputati (sezioni, federazioni, congressi), e tu scopri che di quelle discussioni sei stato parte, che hai vissuto in prima persona il grande psicodramma di quella transizione, appassionandoti e soffrendone e insieme assaporando l’ultima versione dell’essere palingenetico di quel partito; ma scopri anche, quasi incredulo, che sono passati appena vent’anni, o già vent’anni, da quel fatale novembre berlinese in cui un popolo intero smantellò quel muro che tutti, allora, sentivamo come “vergogna”, offesa a ciò che ci ostinavamo a considerare “vero” comunismo: ed era in sostanza coniugazione compiuta perché ritenuta possibile di socialismo e libertà, unico possibile compimento, quanto meno teorico, intellettuale, di un’antica aspirazione che veniva da Lenin, passava per Gramsci e il partito nuovo di Togliatti, si nutriva della terza via di cui aveva parlato Berlinguer e teneva conto delle lezioni della storia, quella feroce della guerra e dei campi di sterminio nazisti ma anche dei gulag sovietici, quella cilena finita nel fascismo di Pinochet e quella sovietica macchiata del sangue di Poznan, Berlino, Budapest. Approdata infine a Gorbaciov. E scopri anche che vent’anni hanno scavato come un abisso tra quei tempi e i nostri. Come se quell’essere comunisti di allora fosse evaporato nelle nebbie di un presente incredibilmente privo dei mitici riferimenti di quei tempi: le sezioni in cui discutevi con la passione di chi si sente parte di qualcosa che lo trascendeva, e ti schieravi da una parte o dall’altra perché ti sentivi comunque parte di un progetto, di un’idea; la militanza intesa come completamento etico della tua personalità, e fatta spesso di sacrificio, di dono altruistico di sé; il senso di trovarti, allora, collocato dentro uno snodo della storia.

Perché in quei giorni si discuteva, nientemeno, di chiudere la storia del Pci, che per tutti era ancora “il glorioso partito”, di cambiargli addirittura il nome, che a tanti appariva cinto di sacralità e dunque in nessun modo discutibile, perché “non c’era nulla di cui vergognarsi per aver militato sotto le sue bandiere”, mentre a tanti appariva purtroppo superato dai tempi e dalla storia, quando non evocatore di un metodo che oggettivamente richiamava a stragi, a prevaricazioni, a intollerabili limitazioni della libertà. Che erano poi, si badi bene, argomenti di discussione non nuovi dentro il Pci, da anni ormai. Berlinguer aveva già detto a Mosca che non si poteva fare a meno della libertà, aveva confessato a Pansa che sotto la Nato i comunisti italiani si sentivano più garantiti, aveva ammesso che la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre si era ormai esaurita. Ma si restava ancora nel guado, la transizione non si compiva, il corpo mastodontico dell’apparato non faceva seguire alle parole, e ai tormenti che le accompagnavano, i fatti che le avrebbero inverate. Fu il trauma del muro che crollava ad accelerare tutto. E improvvisamente quello che si diceva, e che soprattutto sosteneva quella parte di partito che si riconosceva in Napolitano (i cosiddetti miglioristi)  diventò azione politica da compiersi. Subito e decisamente. La nuova leva di dirigenti (Occhetto, D’Alema, Veltroni) succeduta alla vecchia che non aveva avuto il coraggio di far seguire alle analisi i fatti (Ingrao, Natta, Cossutta) ruppe gli indugi e avviò quella che fu chiamata la “svolta”. In poco più di un anno e mezzo, tra la fine dell’89 e i primi mesi del 91, sparì il Pci col simbolo elaborato da Guttuso e prese corpo la “cosa”, il Pds simboleggiato dalla quercia nata dentro l’ufficio grafico delle Botteghe Oscure. Una storia si concluse, ne cominciò un’altra. Anche se in questa si inserirono poi, da nessuno previsti, altri fattori (tangentopoli, fine della prima repubblica, comparsa della Lega, apparizione del berlusconismo) che resero ogni cosa infinitamente più complicata e produssero la mutazione genetica di tutto l’essere politico con cui ci misuriamo adesso.

Luca Telese ha raccontato tutto questo, e dunque “la svolta”, in un libro costruito in maniera magistrale, cercandone ed esplorandone tutte le ragioni e insieme ricavandone una sorta di psicodramma collettivo che vede schierati sulla scena, come attori di un dramma elisabettiano, tutti i protagonisti: coi loro caratteri e le loro posizioni, gli intrighi degli uni e le ingenuità degli altri, la passione e l’orgoglio di ciascuno, le lacrime conclusive quasi di tutti (Luca Telese, Qualcuno era comunista). Non ha intitolato a caso questo libro “Qualcuno era comunista”. Queste tre parole, e quel verbo all’imperfetto, danno infatti il senso di una profondità temporale che sembra allontanare di generazioni gli uomini e i fatti di quei mesi, anche se molti di quegli attori sono ancora sulla scena. Spesso a dire le stesse parole e a intricare gli stessi fili delle stesse ragnatele. E danno meglio la dimensione sofferta, a tratti quasi epica, come di sfida estrema, della battaglia che si combatté. E non è neanche casuale, anzi obbedisce a ragioni che il lettore capisce d’istinto, che alle vicende di quei mesi (le dichiarazioni degli esponenti delle varie “anime” del Pci, le relazioni dei leader, le alleanze che si fecero e più spesso si disfecero, le vicende congressuali di Bologna e di Rimini) si affianchino, in una specie di drammatico controcanto fatto di sapienti allusivi flashback, i tuffi continui nell’altra storia del partito. Dove vedi affiorare le ombre di un passato carico di tragica imperiosa valenza: Stalin che discute amabilmente con Bucharin che sta per fare uccidere, Togliatti gelido e “doppio” nel momento delle purghe, poi raccontato a Yalta prima di morire, e il dramma di Allende, e l’attentato a Berlinguer in Bulgaria, il suo coraggio a Mosca. Telese ci vuol dire che in realtà fu con questo passato che si misurarono i giovani dirigenti che fecero la svolta, anche se forse furono anche loro poco coraggiosi, e se il dato caratteriale e l’inesperienza finirono col rendere tragicomico l’esito di un dramma che aveva tutti i connotati della tragedia storica.

Non credo che importi, in questa sede, dire come la pensasse allora, o la pensi ora, Telese su tutta la questione. All’epoca Telese, “giovane comunista” dal 1984, era un semplice militante della Fgci, e non ci dice mai se o per chi parteggiava. Potremmo dire che affiora nella sua ricostruzione una consonanza con le posizioni riformiste di Napolitano, magari col legittimo senno del poi, come appare evidente specialmente nel racconto dei suoi incontri con Macaluso. Nel libro però la sua testimonianza è dichiaratamente storica, anche se vissuta con l’animus e le tecniche del giornalista, e dunque corale, come nelle testimonianze storiche che si rispettano. E nella coralità c’è posto, e rispetto, per tutto: per la scelta conservativa ma carica di tensione libertaria di Ingrao (il “fronte del no”) ma anche per l’imprevidente impulsiva generosità di Occhetto che, trovatosi a fronteggiare il drammatico frangente, non seppe difendersi dal suo dato caratteriale fatto di ondeggiamenti che finirono col guastare l’esito dell’intera operazione (la non elezione a Rimini per mancanza di quorum!), come anche per il gelido tatticismo di D’Alema che sembrò dare inizio, già allora, oltre che alla definizione della sua particolare tipologia di “eterno secondo”, alla stagione dei lunghi duelli che lo avrebbero sempre opposto a qualcuno in una via in-finita (cioè mai conclusa) verso il controllo del partito: contro Occhetto nel Pds, contro Veltroni nei Ds e poi contro il duo Prodi-Veltroni nel Pd. Ma questa è storia di questi giorni, anche se cominciata allora.

Una cosa va però detta, a segnare forse il succo vero di questo libro: che è anche il dramma dell’intera sinistra nei tempi attuali di gravissima degenerazione della politica, e quando gravano ombre che sempre più spesso fanno pensare a un passato che si spera non possa o debba ripresentarsi. Ed è che in esso si denuncia uno scadimento oggettivo della sinistra, non solo ex Pci ma soprattutto riconducibile a quell’area. Quantomeno all’area socialista. Le cui premesse erano già tutte nel drammatico dibattito di quei mesi. Ed è contenuto, tutto questo, in una domanda che Telese ci pone, e si pone. Ma citiamo le sue parole: “Diceva Berlinguer: ‘Noi siamo convinti che questo mondo, anche questo terribile e intricato mondo di oggi, possa esser letto, interpretato, messo a servizio dell’uomo e del suo benessere. La lotta per questo obiettivo, è un obiettivo che può riempire degnamente una vita’. Da quanto tempo i leader della sinistra non riescono ad adombrare l’afflato di questa speranza, nei loro farraginosi e politicistici formulari?” (p. 606).

La risposta è sotto gli occhi di tutti. Perché non può avere nessuna credibilità una sinistra nei cui recinti si dice che il tempo della lotta di classe è finito perché sono finite le classi. Ma chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire sa bene che non è così. Telese lo dice bene: “… nel mondo di oggi le barriere di classe sono tornate a sollevarsi, altissime, all’interno e al di fuori degli antichi recinti. Gli ultimi da riscattare, invece che ridursi, si sono moltiplicati: neopoveri, extracomunitari, lavoratori espulsi dalle posizioni di sicurezza sociale conquistate in generazioni di battaglie…”. Non mancano i territori per il nuovo inizio. ( www.ilsottoscritto ).

Qualcuno era comunista di Luca Telese , Sperling& Kupfer ed. 2009, Pag 746, euro 22,00

di Alfio Siracusano
 (03/06/2015)

 

 

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