Valutazione, autovalutazione e altro

Valutazione, autovalutazione e altro. Le undici solitudini di Richard Yates. Nonostante il tema sia quello della solitudine, più che del male di scuola, questi racconti hanno una capacità straordinaria di cogliere quello che è il nodo fondamentale di ogni approccio educativo.
di Dina Lentini 

Valutazione, autovalutazione e altro
Miss-tik, Mistique, sui muri di Parigi, l’arte è nociva alla stupidità

Valutazione, autovalutazione, un problema spinoso. Quando scrive “Il dottor Geco”, nei primi anni ’60”, Richard Yates non ha certo obiettivi di tipo psicopedagogico: ciò che gli interessa è la fenomenologia della solitudine, descritta secondo il modello minimalista nella gamma infinita e irripetibile di destini privati, inconfessabili e incomunicabili. Il rapporto drammatico tra una maestra e il nuovo studente inserito nella classe rientra in questo quadro generale di disperazione e di sconfitta. Commossa dal profilo del nuovo scolaro, un bambino vissuto in orfanotrofio e poi adottato da una coppia anziana di scarsi mezzi, Miss Price è fortemente decisa a portare a termine la sua missione: salvare il ragazzo dal suo destino di sottoproletario deriso dai compagni, civilizzarlo, farlo crescere. Ma l’amore della maestra si rivelerà un altro più grave handicap e il bambino si ribellerà, diventando proprio ciò che si voleva evitare. Vincent e Miss Price restano su due binari paralleli che non si incontrano. Non c’è critica al sistema scolastico e l’insegnante, anzi, è una donna appassionata e capace, eppure.

Sempre nella stessa raccolta, un altro racconto, “Il regalo della maestra”, è dedicato all’ambiente scolastico e alle sue problematiche: anche qui si tratta della scuola elementare e di relazioni spesso drammatiche fra bambini che sperimentano, nel micromondo ancora protetto, le tensioni della crescita e della vita. La povera signorina Snell è anziana, all’antica, inadatta ad un rapporto con i bambini, con la loro vivacità e le loro aspettative: la sua severità è quasi grottesca, specie in virtù del contrasto stridente con la collega giovane, entusiasta, vincente. Eppure, per un momento, qualcosa scatta tra i bambini e quella che è comunque la loro maestra, di cui hanno imparato ad apprezzare la serietà e anche una certa ingenuità; poi, tutto va a rotoli, tra le aspettative di una certa umanità, da una parte, l’aridità e la meschineria dall’altra. Si resta così, incapaci di comunicare, ognuno nel proprio mondo.

Nonostante il tema sia quello della solitudine, più che del male di scuola, questi racconti hanno una capacità straordinaria di cogliere quello che è il nodo fondamentale di ogni approccio educativo: la relazione tra due vissuti diversi che entrano in contatto in un luogo deputato a ciò, istituzionale; proprio perché forzato dal contesto che detta ruoli e regole, il rapporto non decolla e degenera in uno scarto fra realtà e assunto ideale che non può essere colmato.

Quando si discute di valutazione bisognerebbe ricordare l’esperienza di quello scarto, di quella separazione che ogni insegnante onesto ha provato, qualche volta in modo lacerante, nella propria carriera. L’istituzione ci ha dotati di griglie, parametri, tabelle che classificano in punteggi e frazioni di punti le conoscenze, competenze, capacità degli studenti: sono strumenti, con tutti i pregi e i limiti che la parola evoca e che spesso nascono da un lavoro oneroso di raccordo fra programmazione e verifica condotto a livello personale e di consiglio di classe, ma per gli studenti sono barriere scoraggianti che allontanano.

Misurati, testati e sanzionati, i ragazzi sopportano o si ribellano, a seconda dei casi. Raramente hanno visto coincidere la valutazione e l’autovalutazione, più facilmente hanno sperimentato la valutazione come sanzione e come ingiustizia, al di là della presunta oggettività delle prove. Se si trovano alle soglie della maturità, hanno ormai avuto tutto il tempo di rassegnarsi a valutazioni di ogni tipo e riconoscono le richieste di quel particolare modello di docente. Si adattano, nella speranza di liberarsi al più presto della scuola: poi prendono strade completamente diverse da quelle tracciate da noi o da noi immaginate. La distanza aumenta.

D’altra parte, la sensazione che resta, su tutti e due i fronti, fra docenti e ragazzi, è la stessa: qualcosa di importante è sfuggito e non è stato risolto. Chi valuta chi? Chi valuta cosa? Un dato è certo: per esperienza, per intuito, per condivisione, i ragazzi sono perfettamente in grado di valutare la bontà e l’efficacia di un programma e la sua aderenza alla realtà e alla vita concreta: quando queste mancano si annoiano; viceversa, sono capaci di entusiasmo, organizzazione, spirito di gruppo; analogamente sono in grado di cogliere ambiguità e fanatismi, rifuggono dagli accanimenti pedagogici o li sopportano per necessità di sopravvivenza, apprezzano e stimano gli insegnanti onesti, ai quali importa qualcosa davvero degli studenti.

Valutazione, autovalutazione, e altro. Se questo non capita, se all’insegnante non importa poi molto dei ragazzi che sono con lui in classe perché è stanco, deluso e cerca di sbarcare anche lui in qualche modo la giornata, gli studenti non ne fanno un dramma, si rassegnano. Sono nel complesso allenati a creare nel tempo scolastico degli spazi di sopravvivenza e, preparati o meno, si sottopongono alle verifiche scritte e orali che ormai costituiscono quasi i 3/4 del lavoro scolastico. A scapito dei programmi e dell’insegnamento, i docenti sono ingoiati, spesso obtorto collo, nella voragine dell’informazione alle famiglie e dell’autotutela che li affonda nella spirale della “valutazione” bimestrale (le pagelline), quadrimestrale, di recupero, di simulazione dell’esame, ecc. Succede che le verifiche, con cadenza anche quindicinale, alla fine vertono su contenuti ben limitati e abilità che, se non c’erano la settimana prima, difficilmente sono state acquisite e assimilate in occasione del test. Sparite le prove “formative”, tutte, per mancanza di tempo, sono diventate prove “sommative”: ma si tratta di test parziali che, appunto, sanzionano un sapere parcellizzato.

Questo, nelle superiori. Nella scuola primaria il concetto di “ciclo”, con tutto ciò che ne consegue sul piano dei tempi della formazione, dovrebbe esporre meno i docenti a favore di una didattica rigida di tipo sanzionatorio.

Yates non credeva nella capacità di insegnare scrittura creativa, ma i suoi corsi universitari affascinavano futuri scrittori che a lui si ispirarono come a un modello artistico e che a lui rimasero legati anche sul piano personale. Evidentemente gli riconoscevano il ruolo di buon maestro.

Un altro scrittore, contemporaneo e molto diverso da Yates, andrebbe tenuto presente nel discorso sulla valutazione: come l’americano degli anni ’60, Pennac è apparentemente disperato circa le capacità dell’istituzione scolastica di capire qualcosa di chi entra in quella particolare aula con il suo mondo di idee, di esperienze, di aspettative. Pennac ha ampiamente dimostrato quanto grande possa essere il male di scuola. Al tempo stesso la sua prospettiva dalla parte degli studenti e l’impegno letterario a favore dell’infanzia testimoniano la fiducia in una pedagogia non autoritaria, in una scuola possibile.

Profondo conoscitore, da studente, della disperazione legata ai tempi dell’apprendimento, Pennac è stato, da professore, un insegnante attento a non cadere nella disperazione della rinuncia. Per evitare (o tentare di arginare) quella che chiamiamo “dispersione scolastica” ha usato mezzi semplici e, tutto sommato, tradizionali. Non avendo pregiudizi di carattere ideologico, ha recuperato dignità e valore formativo per la memorizzazione, il dettato, la lettura di testi complessi: “Ho sempre pensato al dettato come a un appuntamento con la lingua. La lingua come suono, come racconto, come ragionamento, la lingua come si scrive e come si costruisce, il significato quale si delinea attraverso l’esercizio meticoloso della correzione. Poiché l’unico scopo della correzione di un dettato è l’accesso al significato esatto del testo, allo spirito della grammatica, all’ampiezza delle parole. Se il voto deve misurare qualcosa, è la distanza percorsa dall’interessato verso questa comprensione.” ii Ma il voto non si limita ad essere semplice sanzione che imprigiona l’alunno senza aiutarlo. Pennac propone la ricostruzione paziente, da parte del maestro, delle basi necessarie ad ampliare o migliorare la comprensione, se questa risulta insufficiente. Anziché rispolverare l’alibi facile della mancanza di basi, il maestro serio si rimbocca le mani e riparte a ricostruire quello che manca. Facile a dirsi? Non c’è tempo per fare in terza media quello che si sarebbe dovuto fare in quinta elementare o in seconda liceo quello che il programma prevede in quarta ginnasio? Eppure, a pensarci, non resta altro da fare: darsi altri tempi, altri obiettivi. O i ragazzi non ci crederanno e saranno persi per la scuola e per il loro futuro. Pennac sa bene che si tratta di un lavoraccio, eppure non c’è scampo: non ci si può nascondere dietro il dito di chi ci ha preceduti. Occorre rifare, con santa pazienza. Occorre dare il senso della valutazione come corrispettivo reale, analogo, cioè, a quanto accade nella vita reale, di una misura per un lavoro svolto. Di cui lo studente è, progressivamente, in grado di pesare l’equità, avviandosi verso l’autovalutazione. Occorre, soprattutto, evitare che i ragazzi restino prigionieri di un eterno presente, quello del proprio fallimento, rinunciando ad ogni speranza di cambiamento, di strumenti, di ragionamento, di evoluzione. Rimanendo vittime di una sorta di pensiero magico, che nega il mutamento e rende inutile l’educazione.

Dice, molto acutamente, Pennac: “Forse è questo insegnare: farla finita con il pensiero magico, fare in modo che a ogni lezione scocchi l’ora del risveglio.”
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  di Dina Lentini
   (23/02/2020)

 

 

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