Chi vota vince ma solo se votare è davvero libero. Partecipazione, democrazia, responsabilità e tutela. Il voto su questioni fondamentali con l’approvazione in forma palese e non segreta, è strumento di controllo?
di Giuliano Preghenella e Lucio Caldera
Chi vota vince… quel voto palese. Nei giorni scorsi la Cooperazione Trentina ha lanciato sui media una campagna dal titolo suggestivo: “Chi vota vince”. Un messaggio chiaro, nobile, persino emozionante: “In 130 anni abbiamo imparato che solo partecipando si può portare valore alla comunità. Votare è un diritto e un dovere fondamentale per costruire insieme il futuro del nostro territorio e della nostra autonomia.”
Chi potrebbe non essere d’accordo? Partecipazione, democrazia, responsabilità: sono parole che affondano le radici nella storia più autentica della cooperazione.
Eppure, proprio qui nasce il paradosso.
Perché chi vive davvero il mondo cooperativo, oggi, sa che dietro a queste parole si cela spesso una pratica ben diversa. Nelle assemblee delle cooperative, il voto su questioni fondamentali come ad es. l’approvazione del bilancio avviene in forma palese, e non segreta. E se un socio osa votare contro, gli viene chiesto di dichiararsi, di farsi riconoscere, di lasciare traccia del proprio dissenso.
Ma attenzione: il voto palese non è un voto di responsabilità, come qualcuno vorrebbe far credere. È, piuttosto, uno strumento di controllo del consenso.
Non a caso è un metodo molto in voga nei regimi totalitari. In un sistema veramente libero, il dissenso si tutela, non si scheda.
A tutto questo si aggiunge un altro aspetto preoccupante: l’assenza di un limite ai mandati.
In molte cooperative, le stesse persone restano al comando per decenni, rinnovate da assemblee dove il ricambio è solo apparente.
Ma se i volti restano sempre gli stessi, che valore ha davvero il voto?
Chiedere ai soci di votare senza garantire un’alternanza reale è come chiedere loro di firmare una delega in bianco. È un rito, non un esercizio democratico.
È questo il rispetto per la libertà individuale che la cooperazione dovrebbe garantire ai suoi soci?
È questo il modo con cui si costruisce partecipazione, oppure si scoraggia ogni forma di pensiero critico?
Invocare il valore del voto per promuovere una bella immagine pubblica, ma poi vigilare o isolare, o addirittura espellere un socio che non si conforma o la pensa diversamente (vedi modifica di statuto di una cooperativa viticola di Aldeno) non è solo incoerente: è una forma di ipocrisia istituzionale.
È il segno di una struttura di peccato, per usare le parole della dottrina sociale della Chiesa: una forma organizzata e ripetuta di ingiustizia che si mimetizza dietro le buone intenzioni, ma finisce per limitare la libertà e scoraggiare il bene.
E alla lunga, logora la fiducia e svuota di senso la partecipazione stessa.
Lo vediamo anche oggi: alle urne comunali l’affluenza è bassissima. Non possiamo ignorare che questo disincanto verso il voto pubblico trovi radici anche nei contesti “intermedi”, come quello cooperativo, dove il cittadino-socio si accorge che votare, in realtà, non cambia nulla o peggio, espone al giudizio di chi comanda.
Se davvero si vuole onorare lo spirito cooperativo, serve coerenza tra ciò che si proclama e ciò che si pratica. Il voto è un diritto, non un favore da concedere solo a chi sta al gioco.
Chi vota vince, sì. Ma solo se votare è davvero libero.
di Giuliano Preghenella e Lucio Caldera
(10/05/2025)
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