Flatform, Quello che verrà è solo una promessa

Quello che verrà è solo una promessa, regia Flatform. La riflessione sul gesto artistico si fa emblema della percezione del tempo e dello spazio, della sovrapposizione eterna dell’istante all’istante.
di Raffaele Meale 

Flatform, Quello che verrà è solo una promessaQuello che verrà è solo una promessa è il nuovo lavoro di Flatform, collettivo artistico con base tra Milano e Berlino. Una riflessione sullo scorrere della natura, e sul concetto di movimento tra spazio e tempo nel cinema, in un piano sequenza vorticoso. Alla Quinzaine des réalisateurs.

Tra acqua e terra

In un lungo piano sequenza attraverso l’isola di Funafuti si avvicendano fluidamente lo stato di siccità e quello di allagamento e viceversa, senza interruzioni. I luoghi e le azioni dei loro abitanti, nel costante e scorrevole movimento da uno stato all’altro, mettono a dimora le due situazioni ricorrenti dell’isola: quelle dell’attesa e della sospensione. Funafuti, nell’arcipelago di Tuvalu, è teatro da qualche anno di un fenomeno unico: per effetto del surriscaldamento del mare l’acqua salata risale dal sottosuolo, affiora attraverso le porosità dei terreni e li allaga mettendo a rischio il futuro della vita sull’isola.

Per girare Quello che verrà è solo una promessa, il nono lavoro nell’arco di un decennio, il collettivo Flatform si è recato a Funafuti, nell’arcipelago di Tuvalu, dall’altra parte del mondo. Un viaggio agli antipodi per fotografare un fenomeno bizzarro, unico nel suo genere: l’acqua marina, in seguito al surriscaldamento terrestre, si fa largo attraverso il terreno e allaga la terra quasi di colpo. Una riemersione dell’acqua dalla terra in cui qualcuno potrebbe assaporare un retrogusto biblico, e che molto scientificamente dice della catastrofe cui sta andando incontro l’intera umanità. Non c’è però intenzione strettamente documentaria, in Quello che verrà è solo una promessa, selezionato all’interno della rinnovata Quinzaine des réalisateurs capitanata da Paolo Moretti – che contribuì a portare Flatform a Venezia nella sezione Orizzonti, nel 2010 con Non si può nulla contro il vento e l’anno successivo con Movimenti di un tempo impossibile –, se non nell’accezione più ampia e forse più nobile e alta del termine. Documentare come necessità estrema, ineludibile, di raccontare l’umano, il suo tempo e il suo spazio, e quell’ansia di divenire, di trovare senso a ciò che lo circonda. Sotto questo punto di vista Flatform, collettivo che lavora di base tra Milano e Berlino, costruisce un cortometraggio che riesce a creare un sincretismo tra installazione video e spinta divulgativa, celebrazione dell’arte e accogliente sguardo sul reale.

Nel suo respirare insieme agli abitanti dell’isola di Funafuti, mostrando il loro surreale quotidiano, con quella terra che si fa molle sotto l’acqua per poi tornare a essere dura, inscalfibile solo all’apparenza superficiale delle cose, il film di Flatform dimostra una coerenza espressiva encomiabile, che passa necessariamente attraverso la scelta operata per raccontare per le immagini un luogo, un ambiente, un popolo e la sua condanna.

Quello che verrà è solo una promessa si articola nel corso dei suoi venti minuti e poco più di durata come un lungo piano sequenza. Un unico movimento di macchina che parte parafrasando un classico carrello laterale per poi stratificarsi, facendo volare la camera, permettendole evoluzioni di ogni tipo.

La riflessione sul gesto artistico si fa dunque emblema della percezione del tempo e dello spazio, della sovrapposizione eterna dell’istante all’istante, della riscrittura della storia nel momento stesso in cui si compone un’immagine, la si lavora in fase di montaggio, si articola un movimento di macchina. Senza dimenticare però mai uno sguardo compiutamente umano e umanista, abbarbicato a questi uomini e donne che sono stati costretti a superare la classica dicotomia che vede acqua e terra come elementi distanti, persino contrapposti da un punto di vista strettamente simbolico. Come il fenomeno chimico e atmosferico ha ribaltato la prassi, portando l’acqua a emergere là dov’era impossibile immaginarla, così Flatform gioca sul rapporto tra gli elementi. Gli esseri umani che mostra all’opera, dai bambini che sguazzano in una pozza fino alle anziane sedute sulle sedie a chiacchierare, sono contemporaneamente nell’acqua e sulla terra, senza che questa differenza intervenga in alcun modo sulle loro abitudini, sul loro rapporto con l’esterno, sulle scelte che operano e su come le portano a termine.

Ecco dunque che nella sua forma di ricerca sull’immagine e attraverso l’immagine, l’opera di Flatform diventa una riflessione non solo sul mezzo tecnologico e neppure sulla deriva della natura, in balia dei cambiamenti climatici, ma anche e soprattutto sulla perseveranza dell’umano, il suo spirito d’adattamento, la sublime e disperata dialettica con ciò che è esterno e superiore a lui – come sottolinea con elegante scelta formale quel movimento a salire della videocamera che di colpo abbandona la terra per librarsi in alto e riprendere da lì, da quella prospettiva a piombo, la terra e gli umani che la abitano. Ancora per poco, forse. (  https://quinlan.it/  )

 

  di Raffaele Meale
   (19/03/2020)

 

 

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