L’ Appartamento Billy Wilder

Torna in sala L’appartamento, la commedia di Billy Wilder premio Oscar nel 1960, nella versione restaurata in 4K dalla Cineteca di Bologna.  Rifugio e gabbia dorata, nido d’amore e luogo principe della solitudine.
Redazione 

L Appartamento Billy WilderL Appartamento Billy Wilder. «L’1 novembre del 1959, la popolazione della città di New York raggiungeva la cifra di 8.042.783. Se si facevano stendere tutte queste persone una dopo l’altra, immaginando un’altezza media di cinque piedi e mezzo circa, essi avrebbero raggiunto, partendo da Times Square, la località di Karachi nel Pakistan. Conosco cose come queste perché lavoro per una grossa compagnia di assicurazioni – una delle cinque più importanti del paese. (…) Il mio nome è C.C. Baxter. Vivo vicino alla 66th West, proprio a un isolato dal Centrai Park. Ho un appartamento veramente delizioso – niente di incredibile, ma qualcosa di dignitoso – quello giusto per un impiegato. L’unico problema è che non posso andarci quando voglio».

Con questa sorta di autopresentazione/confessione allo spettatore inizia uno dei film più lucidi e amari di Billy Wilder, e forse quello più segnato da una volontà di critica che oltrepassa il livello della pura e semplice denuncia sociale a sfondo drammatico, e si fa discorso più complesso e al tempo stesso aperto.

Visto (anzi, rivisto) oggi L’appartamento vale proprio, al di là del suo valore ritmico (della perfetta rispondenza di tutte le sue parti), per la voluta ambiguità di visione di Wilder e di I.A.L. Diamond, maestro di sceneggiatura. Per il suo mischiare le carte, per i continui stimoli che suscita nello spettatore per poi subito tradire l’assunto di partenza.

Come giustamente notano Neil Sinyard e Adrian Turner nel loro volume dedicato a Wilder, Journey Down Sunset Boulevard, nei due- tre minuti del monologo iniziale (sottolineati da una serie di sequenze aeree New York e da un magistrale movimento che dall’universale della città conduce al particolare della compagnia di assicurazioni e infine al minimale del povero C.C. Baxter) sono introdotti a regola d’arte tutti gli elementi che possono contribuire ad una esatta definizione della situazione, professionale e personale, del protagonista.

La sovrappopolazione delle metropoli. Il terziario. Lo spossessamento e l’alienazione del lavoro. L’informazione di tipo televisivo e statistico. Ma a parte il fatto che con l’abituale (per Wilder) scatto di sceneggiatura Baxter ha introdotto tra le righe il suo dramma personale, che è ben più grave e preoccupante di qualsiasi statistica sul malessere della civiltà, regista e sceneggiatore provvederanno in seguito, sequenza dopo sequenza, a tradire il senso originario di ogni discorso.

L’appartamento inizia, infatti, con le prime battute del discorso di Baxter (la singolare «unità di misura» adoperata per illuminare lo spettatore sull’entità della popolazione newyorkese), come una brillante commedia. Bastano però poche manciate di secondi perché il tono scanzonato si trasformi in commento amaro, con una delle inversioni (o estensioni) tanto tipiche del miglior Wilder.

La considerazione che chiude il monologo del protagonista viene così a rappresentare il primo spostamento rispetto al normale diagramma della narrazione filmica. Più in generale, L’appartamento trova la sua misura nel non volersi «decidere» tra commedia e dramma, nel trovare, più compiutamente e con più successo che mai, quella via intermedia tipica del motto di spirito wilderiano.

Le piccole notazioni ironiche di Baxter e dei suoi colleghi, i mutamenti improvvisi nel comportamento del principale che viene a sapere del genere di “traffico” intrapreso nella sua ditta e che, lungi dal combatterlo come a prima vista pareva, è perfettamente intenzionato ad approfittarne; la calda, ironica umanità di Fran, la ragazza dell’ascensore, e la sua improvvisa decisione di togliersi la vita, sono soltanto alcuni dei nodi» della sceneggiatura che sottolineano l’ambivalenza wilderiana.

L’ambiguità qui è connaturata alla stessa doppia natura di ogni sistemazione della moderna metropoli, e in special modo di New York, sulla realtà edilizia della quale ci si potrebbe basare per redigere la storia di un nuovo genere cinematografico.

Rifugio e gabbia dorata, nido d’amore e luogo principe della solitudine, sogno e incubo dell’abitatore: l’occhio particolarmente attento di Wilder oscilla tra i poli con un moto che solo apparentemente disorienta, ma che in realtà induce lo spettatore all’identificazione con il protagonista.

L’alienazione è poi infinitamente più profonda, poiché Baxter non solo vive in un bugigattolo che è costretto a riconoscere come un buon appartamento (e su questo elemento molti altri autori, da Neil Simon a Herbert Ross hanno costruito film non altrettanto potenti…), ma spesso non ci può nemmeno vivere, spesso l’appartamento non è più suo.

L’apparenza dell’happy ending è un altro di quei magistrali colpi di mano registici, e rende l’idea di quanto complessa e perfetta sia la macchina spettacolare approntata da Wilder e Diamond: un meccanismo il cui scopo è la lucidità dello smascheramento, cui si giunge con uno sguardo altrettanto lucido. Che sa riconoscere, cioè, che qualsiasi finale in una vicenda come questa è un fittizio arrestarsi prima del vuoto.  (  http://www.cineforum.it  ) 

 

  Redazione
 (10/12/2019)

 

 

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