La verità si dice al buio

La verità si dice al buio, in silenzio. O su Eduardo. La prima volta aveva quattro anni, su un palcoscenico. La prima di moltissime volte. Un ritratto di Eduardo De Filippo, uno dei maggiori artisti italiani.
di Marianna Masselli 

La verità si dice al buio
Edoardo De Filippo

La verità si dice al buio. È appena trascorso il centoventesimo anniversario della nascita di Eduardo De Filippo. Anche la Rai dedica al drammaturgo una retrospettiva iniziata lo scorso 19 maggio con uno speciale su Rai Storia e che prosegue con la disponibilità di una raccolta di quaranta delle sue commedie su RaiPlay e la messa in onda su Rai 5 il sabato fino novembre. Un ritratto.

Ci sono quanti, per loro fortuna, sembrano sicuri che le cose si vedano alla luce, si trovino fra le parole dette, si dimostrino in ciò che accade palesemente. E poi ci sono quelli che, forse loro malgrado, sanno o si convincono di aver avuto o sfiorato la verità solo al buio, negli interstizi di un silenzio, di averla intuita per un attimo dietro alla superficie del muro che si frappone con il resto del mondo, con la maggior parte degli altri, con il lato nascosto e sconfessato di e a se stessi. Resta che senza i secondi i primi non avrebbero alcun senso di essere e viceversa.

Un sacco di tempo. Quarantatremilaottocentotrentasei giorni. Anni. Un sacco di anni. Centoventi per l’esattezza. Una data di nascita: era il ventiquattro maggio millenovecento quando Luisa De Filippo partoriva, dopo Titina, il suo secondo genito, Eduardo, cui sarebbe seguito Peppino tre anni dopo. Figlio naturale e senza cognome di Eduardo Scarpetta, dell’ultimo Pulcinella del Teatro San Carlino, del fautore per antonomasia di Felice Sciosciammocca. Un padre importante, un nome importante, una famiglia complicata e conosciuta, a Napoli e non soltanto. La paternità negata è come una crepa nel midollo di un figlio che a volte coincide con la linea della vita. Un destino inevitabile, un testimone scelto o trovatosi nelle mani, con la genetica che urla e si scava in faccia, mentre si respira tutto di un mestiere, mentre vi si rincorre l’identità che si ricompatta proprio quando diventa altro, quando si impara ad esistere senza aderire a un calco, senza tentare di replicare una radice o l’origine, cui comunque non ci si nega mai. La prima volta aveva quattro anni, su un palcoscenico. La prima di moltissime volte. L’ultima fu ottant’anni dopo a Taormina: «Ho la nomina che sono un orso, che ho un carattere spinoso, che sfuggo, sono sfuggente. Non è vero. Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie. […]Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita. […] È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo. Così si fa il teatro e così ho fatto […]».

La verità si dice al buio. È risaputo come Eduardo De Filippo non fosse uno di molti convenevoli, anzi uno di poche cerimonie e modi bruschi. Gli riusciva meglio scrivere o re-citare le cose più serie, profonde, pregnanti che avesse da dire, la verità dei suoi occhi passava per la penna e tornava agli occhi, arrivava in scena per insinuarsi netta sulla maschera del viso, nella voce innervata dalla bocca inscritta nel baratro delle ossa degli zigomi feriti dal cerchio frontale del naso a calare sulla feritoia dei baffi. C’è tutto il Novecento in Eduardo, tutto quanto arrivava dal prima e parte di quanto è venuto dopo, tutto nei gesti, nelle inflessioni, nella postura, tutto scolpito nell’anatomia ed evolutosi, adattatosi negli anni al tempio del corpo scenico. C’è tutto il Novecento nei suoi silenzi a evidenziare le parole dette, ma anche quelle impronunciabili, negate o superflue. C’è tutto il Novecento in quell’amarezza profondissima mai troppo seria, in quella comicità autentica mai troppo leggera, nella sconfitta, nella fede, nella presa di consapevolezza e nell’illusione dei suoi personaggi. C’è tutto il Novecento nella costruzione lineare di storie spesso srotolate in tre atti, sempre con una introduzione, un’acme e una fine precisa, con il paradosso incuneato visceralmente sulla realtà ordinaria. C’è tutto il Novecento nella scienza esatta di quel napoletano misto, spurio, spezzato dall’italiano, tanto trasversale, tanto accogliente da essergli valso pure qualche recalcitranza dotta a tacciare di “borghesia”. C’è in Eduardo tutto quanto è arrivato dal prima e parte di quanto è venuto dopo, tutto così comprensibile, familiare, amorevole, tutto in definitiva così incerto, interpretabile, enigmatico.

La verità si dice al buio
Eduardo De Filippo

Capocomico, attore impareggiabile, drammaturgo tra i più conosciuti e tradotti, comprò con le difficoltà del caso un teatro (il San Ferdinando) per non vederlo perire ridestinato da nuove logiche di mercato. La Cantata dei giorni pari e la Cantata dei giorni dispari cifrano editorialmente una copiosissima raccolta di titoli, alcuni più conosciuti al grande pubblico, altri meno: Questi fantasmi, La paura numero uno, Mia famiglia, Il cilindro, L’arte della commedia, Filumena Marturano, La grande magia, Le voci di dentro, Uomo e galantuomo, Natale in casa Cupiello, Ditegli sempre di sì, Non ti pago, De Pretore Vincenzo, Il sindaco del Rione Sanità, Napoli Milionaria, Sabato domenica e lunedì… Un bagaglio di lemmi ed espressioni entrate nel linguaggio comune visto che a tanti sarà capitato di dire o di pensare che «Ha da passà ‘a nuttata» o che “gli esami non finiscono mai”, visto che si saranno chiesti «Te piace ‘o Presebbio?» o anche senza saperlo un giorno si troveranno a constatare «saie quanno se chiagne? Quanno se cunosce ‘o bbene e nun se pò avé! […] e quanno se cunosce sulo ‘o mmale nun se chiagne».

Le “commedie” certo e poi gli atti unici, le poesie, lo sceneggiato televisivo (Peppino Girella), i dialoghi con Franco Zeffirelli nelle riprese per la Rai, gli adattamenti e le apparizioni cinematografiche da A che servono questi quattrini? a Fantasmi a Roma, da Ferdinando I° re di Napoli fino a quel Don Ersilio che ne L’Oro di Napoli ha siglato al Duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornai la filosofia di vita del pernacchio. Niente è mancato, nemmeno quell’incredibile traduzione de La tempesta shakespeariana, registrata alla fine, quasi cieco con l’aiuto di Isabella Quarantotti e i palpiti del significato di un’esistenza compiuta eppure inesauribile: lo ha spiegato nelle sue lezioni a La Sapienza di Roma, e con ogni nuovo testo, ad ogni debutto, ad ogni replica, lo ha conclamato nell’ultima apparizione da attore a Montalcino come la tradizione sia un trampolino da conoscere a menadito, per poterla abbracciare o rinnegare nella creazione di una cifra personale, come la nascita sia un punto di arrivo nel mondo e la morte un punto di partenza per quelli che rimangono.

Ci sono quanti sembrano sicuri che le cose si vedano alla luce, si trovino fra le parole e quanti sanno di aver sfiorato la verità solo al buio, nei silenzi, dietro a un muro, per un attimo. Perché senza fede non resta alcun dio, senza scienza nessun artista e senza odio nessun amore. Un buio, un silenzio, un attimo, un muro contro cui e per cui si continua. Perché forse, a tratti, non si dovrebbe fare a meno di fronteggiare se stessi e poi rischiare di perdere tutto.  (  https://www.teatroecritica.net  )

 

 di Marianna Masselli
   (30/06/2020)

 

 

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