Pechino su Hong Kong

La stretta di Pechino su Hong Kong: il regime non può permettersi “due sistemi”. Una sfida anche per l’Occidente. Il Partito comunista non può cambiare perché non ammette alternative di sorta al suo potere assoluto
di Michele Marsonet 

Pechino su Hong KongPechino su Hong Kong. Sono in corso, a Pechino, i lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Quest’ultima, assieme alla Conferenza Politica Consultiva del Popolo, forma il Lianghui, termine il cui significato è “doppia sessione”.

Nonostante i nomi altisonanti e il continuo ricorso al termine “popolo”, i due organismi in realtà riflettono il completo dominio politico che il Partito comunista esercita sulla società dell’immenso Paese asiatico. Dominio che non è mai venuto meno, neanche dopo le riforme economiche introdotte da Deng Xiaoping a partire dai tardi anni ’70 del secolo scorso, e miranti – almeno in teoria – a contemperare l’economia pianificata con prudenti aperture al mercato e all’iniziativa privata.

Da allora la Cina è cambiata moltissimo, divenendo nel corso di alcuni decenni una potenza mondiale a tutti i livelli, in particolare in economia, nella politica internazionale e sul piano militare.

Tuttavia Deng e i suoi seguaci rifiutarono decisamente di seguire la strada di Gorbaciov. A loro avviso l’ultimo segretario del PCUS commise un errore fondamentale attenuando in più modi il controllo del Partito comunista sulla società. Intrapresero quindi un sentiero diverso lasciando sì spazio all’arricchimento privato ma, al contempo, chiarendo senza ombra di dubbio che soltanto al partito spettava la direzione esclusiva del Paese.

Ne è derivato lo strano “socialismo di mercato” tuttora al potere nella RPC. E, dicendo potere si intende un potere assoluto, giustificato dai testi classici del marxismo-leninismo con alcune modifiche derivanti dalle idee di Mao Zedong.

L’Assemblea e la Conferenza citate all’inizio rappresentano al meglio la declinazione concreta di tale potere. La Conferenza è ufficialmente “consultiva”, ma tale è anche la più importante Assemblea Nazionale, formata da tre mila membri. Entrambe salvano – per così dire – la democrazia dal punto di vista formale poiché i rappresentanti sono eletti, fermo restando che l’elezione è strettamente controllata da un partito unico al quale nulla sfugge. Non mancano – come accadeva nell’URSS e nei suoi Paesi satelliti – formazioni politiche dal nome diverso; le quali, però, seguono fedelmente la linea dettata a Pechino dal Politburo.

Ciò nonostante gli osservatori internazionali seguono sempre con molta attenzione i lavori dei due organismi poiché, da un’attenta lettura di discussioni e documenti, è spesso possibile cogliere sia degli indizi di disaccordo sia l’emergere di nuove tendenze politiche.

Nell’ultima sessione (2016), a causa dei segnali di crisi manifestati dall’economia, la leadership aveva ridotto il budget della difesa facendolo crescere “soltanto” del 7,6 per cento a fronte del 10,1 per cento degli anni precedenti. Si tratta comunque di cifre enormi, ma i militari non avevano mancato di far trapelare una certa preoccupazione tradottasi in brontolii di vario tipo. Come può la Cina rafforzare il suo ruolo di potenza globale se gli stanziamenti per esercito, marina e aviazione vengono tagliati? La risposta del partito fu che i militari “devono farsene una ragione”, poiché solo la leadership è in grado di cogliere il quadro complessivo.

Quest’anno i delegati affrontano uno scenario assai mutato, soprattutto a causa della pandemia di coronavirus le cui conseguenze per l’economia sono assai pesanti, anche se la censura impedisce di capire fino a che punto. Più che del Pil, che è comunque in forte discesa, devono occuparsi della politica internazionale che l’approccio di Donald Trump ha in pratica rivoluzionato.

Bisogna in primo luogo notare che il Partito comunista non può cedere su alcuno dei molti fronti aperti. Ecco quindi una stretta clamorosa su Hong Kong, dove Xi Jinping e il suo gruppo dirigente sono intenzionati a fare sul serio. Alla città-isola verrà applicata la stessa politica di sicurezza nazionale vigente in Cina. Basta dunque con una stampa ancora relativamente indipendente e basta con le manifestazioni di massa, che verranno represse ancor più duramente, magari con l’intervento diretto dell’Esercito Popolare.

Ma l’approccio è sempre più minaccioso anche nei confronti di Taiwan, Stato indipendente che Pechino considera soltanto una sua provincia. Non a caso si è ricominciato a parlare di invasione militare dell’isola per farla finita una volta per tutte con la presidente indipendentista Tsai Ing-wen, riconfermata dai cittadini taiwanesi a larghissima maggioranza.

Dunque Xi Jinping, presentatosi ai lavori dell’assemblea senza mascherina protettiva, sembra intenzionato ad andare fino in fondo. La repressione a Hong Kong – ma anche nel Tibet e nello Xinjiang degli uiguri – promette di essere feroce, e gli oppositori sono destinati a entrare nei tanti Laogai, i “campi di rieducazione” sparsi nel Paese.

Il fatto è che il Partito comunista non può cambiare perché non ammette alternative di sorta al suo potere assoluto e, come già notato in precedenza, Xi Jinping non vuole fare la fine di Gorbaciov. Quando la Repubblica Popolare fu ammessa nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) l’11 dicembre 2001, il mondo occidentale si illuse che quella fosse la mossa giusta per favorire la democratizzazione del Dragone.

Non è stato così, e la globalizzazione “cinese” lo ha ampiamente dimostrato. La Repubblica Popolare pone una sfida di enorme portata alla liberal-democrazia e a un Occidente che mai è parso così diviso e distratto. Si tratta di capire se a tale sfida saprà rispondere in modo adeguato su ogni piano: politico, economico e militare. (  http://www.atlanticoquotidiano.it  ) 

 

 di Michele Marsonet
     (25/05/2020)

 

 

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