Valley Of The Gods

Valley Of The Gods, una sontuosa esperienza visiva che provoca meraviglia a ogni inquadratura. Lech Majewski torna alla regia con un’opera complessa e suggestiva nella quale sprofondare, in una specie di caduta infinita.
di Giovanni Bogani 

Valley Of The GodsÈ un oggetto difficile da trattare, questo Valley of the Gods. Una sontuosa esperienza visiva, ma sconcertante, disorientante. Un critico, non degli ultimi arrivati, ha scritto: “Mi sarebbe piaciuto vederlo proiettato in una sala, per vedere le facce degli altri spettatori ai titoli di coda”. In Italia potremo fare l’esperimento. Valley of the Gods esce al cinema, dal 3 giugno. E certo è un punto in più, per i paesaggi e gli interni che mostra, per il senso di meraviglia, di vertigine che ogni inquadratura del film di Lech Majewski provoca. Una vertigine nella quale si sprofonda, si cade in una specie di caduta infinita. Difficile aggrapparsi a qualcosa di concreto, magari uno spuntone di roccia, come fanno i protagonisti del film.

Il film si apre sulle immagini di un uomo – Josh Hartnett – che arriva nella Valley of the Gods, la valle degli dei, un’area non lontana dalla Monument Valley, altrettanto spettacolare, meno cinematograficamente abusata. È lì che vivono gli spiriti delle divinità Navajo, nelle enormi rocce che modellano quel paesaggio.

Capiamo, poco a poco, che l’uomo è un pubblicitario, che la sua vita è devastata da quando sua moglie lo ha abbandonato. Il suo terapista gli ha suggerito, come cura, quella di fare cose folli: scalare a mani nude una montagna, tenendosi attaccate a una caviglia pentole e coperchi, come in una versione oscena e dannata della partenza degli “Oggi sposi”, l’auto con tutta la stoviglieria dietro a rumoreggiare. Oppure, camminare nelle strade bendato, e camminando all’indietro.

Sappiamo anche che la sua vera aspirazione è quella di scrivere un libro: e viene il sospetto, in più di un momento, che tutto ciò che vediamo non sia altro che la visualizzazione di quel libro.

Il secondo personaggio è un misterioso clochard che si fa picchiare da altri clochard, che si fa investire da un’auto. E che poi, da una imprevedibile porta in un muro, entra in un mondo sontuoso, ricchissimo, barocco, Kitsch. Perché lui, in effetti, è un miliardario, è l’uomo più ricco del mondo. Interpretato con il consueto sottile, sussiegoso, aristocratico, sovrumano carisma da John Malkovich.

Terzo elemento del film – dire che c’è una “storia” è una forzatura – sono i Navajos. Il miliardario vuole comprare i diritti di sfruttamento minerario della Valle degli dei per estrarne l’uranio. E i Navajos si dividono, fra quelli che ambiscono alla loro parte di soldi e quelli convinti che la loro terra sacra venga violentata da questa mossa.

E fin qui, l’abbiamo raccontata come se fosse una storia tradizionale, lineare. Ma sappiate che così non è. Divisa in dieci capitoli più un prologo, la vicenda parte come un puzzle davvero incomprensibile: le linee narrative che riguardano il pubblicitario disperato, il miliardario clochard e i Navajos non sempre seguono una logica comprensibile dallo spettatore. Che si ritrova un po’ come Hartnett quando sceglie, come terapia, di andare in una strada affollata bendato, e camminando all’indietro. Ogni tanto si inciampa in qualcosa di imprevisto.

Per esempio, la scena in cui uno dei Navajos scala un’enorme parete di roccia per – non saprei in che altro modo descriverla – fare sesso con quest’ultima. O come quando il miliardario Malkovich, nel corso di una festa lussuosa e macabra, sfoggia una catapulta di legno nata da un disegno di Leonardo da Vinci e scaraventa in un dirupo non una palla di ferro, ma un’auto d’epoca tutta intera, con finiture di pregio. Perché?

Lech Majewski è un regista ambizioso, innamorato dell’arte del Rinascimento italiano e dei Fiamminghi. Nel suo film I colori della passione (The Mill and the Cross) riuscì a riprodurre in maniera perfetta, stupefacente un dipinto di Bruegel il Vecchio, e a farvi muovere dentro Rutger Hauer e Charlotte Rampling. Questa volta, brandelli di Rinascimento affiorano, impressionanti ed enigmatici, come una replica perfetta della “Porta del Paradiso” di Lorenzo Ghiberti: ma continui a chiederti “perché?”, perché la sto vedendo, perché è apparsa, dove mi vuole portare questo – coraggioso, ambizioso, temerario – regista?

Hartnett, che fa di tutto per dare credibilità al suo personaggio, si lascia sfuggire una confessione durante un’intervista in Polonia, dove Majewski è stato premiato con il Camerimage Directing Award: “Lech non è necessariamente interessato a spiegare nei dettagli il suo film a nessuno. Attori inclusi, direi”.

Non sai dove collocare, nei cassetti della mente, un film così. Inizia come un film di Wenders, con un uomo solo dentro un’auto, un distributore di benzina notturno, una scena alla Hopper. Poi con paesaggi western, e forse c’entra Paris, Texas, chissà. Poi ti tuffi in una fantasia surreale che corre fra Terry Gilliam e David Lynch, fra giardini con statue che raffigurano le persone amate dal miliardario, e una sensazione di sbigottimento da L’anno scorso a Marienbad. Ma il problema, forse, è che l’atmosfera prevale sempre sulla struttura della storia; o, se si vuole dirla in altre parole, la meraviglia vince sempre sul senso. E neppure un attore sottile e metafisico come John Malkovich riesce a portarti per mano in questo universo scomposto; e neppure la presenza di Keir Dullea – sì, proprio lui, il protagonista di 2001: odissea nello spazio – riesce a portarti indenne in questo viaggio “oltre l’infinito”.  (  https://www.mymovies.it/  )

 

    Generica
 (31/05/2021)

 

 

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