The Gentlemen scritto e diretto da Guy Ritchie che riprende toni e personaggi dei gangster movie che l’hanno reso famoso. Un ritorno alle origini e per i suoi interpreti una rimpatriata tra amiconi dello showbiz.
di Roberto Manassero
L’investigatore privato Fletcher s’intrufola nella casa del gangster Raymond Smith per raccontargli come il cliente che l’ha assoldato, il re dei tabloid Big Dave, abbia voluto vendicarsi del suo capo, il più importante trafficante di droga d’Inghilterra, l’americano Mickey Pearson. Fletcher riferisce di come Pearson abbia offerto il suo regno al miliardario Matthew Berger, desideroso di mollare tutto e ritirarsi con la moglie e socia in affari Rosalind. Raymond in realtà conosce perfettamente la storia e sa che Fletcher è venuto per ricattarlo con le prove di un omicidio tenuto nascosto. Ma è solo l’inizio di una serie di tradimenti e rivelazioni che coinvolgono anche un trafficante cinese, un miliardario russo ex spia del KGB e lo strambo gangster di quartiere Coach, a capo di una band di rapper e lottatori.
Guy Ritchie riprende toni e personaggi dei gangster movie che l’hanno reso famoso, anche se l’energia e la carica di un tempo appare irrimediabilmente lontana.
Con The Gentlemen Guy Ritchie è tornato a fare quello che gli riesce meglio: raccontare le gesta di criminali spietati e ironici, moderatamente fuori di testa e molto cool. I problemi sono sostanzialmente due: apprezzare o meno il genere e, soprattutto, capire quale spazio possa ritagliarsi nel cinema di oggi.
Per il primo problema si potrebbe anche non trovare una soluzione, dipendendo dal piacere o meno del singolo spettatore; per il secondo, invece, ben sapendo che negli anni film come Lock & Stock – Pazzi scatenati e The Snatch (che a fine anni ’90 sull’onda del tarantinismo crearono l’astuta formula del gangster movie ultrapop) hanno avuto infinite ripetizioni, è lo stesso Ritchie a offrire la scappatoia: The Gentlemen è un film di fine anni 90, «old-school, 35 mill, anamorphic, or ratio 2.35 to 1» come dice l’investigatore e narratore interno Fletcher, presentando il suo racconto. Prima ancora, poi, l’apertura sul logo della Miramax, l’ex casa di produzione di Harvey Weinstein ora rilanciata, suona come una reminiscenza: per il cinema di Guy Ritchie il tempo non è passato invano, anche se in passato il suo stile ha fatto scuola.
E dunque The Gentlemen – che comunque prima dell’esplosione della pandemia di covid-19 era arrivato a quasi 120 milioni di dollari d’incasso nel mondo: non male per una produzione da 20 milioni – è per il suo regista (anche autore della sceneggiatura) un ritorno alle origini e per i suoi interpreti una rimpatriata tra amiconi dello showbiz.
Come spesso accade in questi casi, l’impressione dello spettatore è che il divertimento stia più dietro e davanti la macchina da presa che non davanti lo schermo, per quanto gli ingredienti per uno spettacolo in gran stile ci siano tutti: intrigo criminale tra trafficanti di droga, miliardari e mogul della comunicazione; trama con continue rivelazioni; eleganza e coolness dispensate a piene mani; colonna sonora di superlusso (Cream, Roxy Music, Paul Welller, Johnny Rivers). La recitazione farsesca degli interpreti – dal compiaciuto Matthew McConaughey al divertente Colin Farrell, dal duetto efficace Hugh Grant-Charlie Hunnam, agli inglesi Eddie Marsan e Michelle Dockery, unica donna in un cast tutto maschile – non fa che aumentare il livello di eccitazione professionale del film.
L’eleganza dei costumi di Michael Wilkinson, con quei colori autunnali tipicamente british, è forse la cosa migliore di The Gentlemen, che come sostiene il suo protagonista, spietato re del narcotraffico stancatosi delle proprie conquiste, è un prodotto della gentrificazione. Ritchie è felice di mostrare i suoi personaggi sorseggiare tè, chiacchierare attorno a un lussuoso tavolo da barbecue, nascondere laboratori di stupefacenti sotto eleganti tenute aristocratiche. Certo, dietro le apparenze il mondo criminale è ancora quello di una volta: cadaveri nei freezer, pallottole ficcate in fronte, pestaggi e rincorse fra i vicoli: ma più che stanco, il mondo adrenalinico di Ritchie sembra annoiato – da sé stesso, dall’obbligo di andar di corsa, dall’accumulo di personaggi e linee narrative.
Lo fa capire ancora Fletcher, che dice di scattare e analizzare fotografie e registrazioni come Gene Hackman in La conversazione, anche se trova che quel film non faccia per lui: «un po’ noioso, a essere sinceri». Difficile non pensare che a parlare sia lo stesso Ritchie, consapevole di desiderare un altro tipo di cinema (e per fortuna nemmeno ci prova a rifarlo, Coppola) ma anche di aspirare al massimo a una rimasticatura del proprio immaginario. ( https://www.mymovies.it )
di Roberto Manassero
(26/01/2021)
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