Nel Risiko del Grande Medio Oriente

Il papa, Putin e Khamenei: la Santa Alleanza contro lo Stato Islamico Il Vaticano ha dichiarato guerra al califfo un anno prima di Hollande. Sapendo che chi sbaglia nemico ha già perso, Bergoglio punta sulle potenze ortodossa e sciita per creare un cordone sanitario di antichi imperi e civiltà contro le barbarie jihadiste.
di Piero Schiavazzi  

 

Che-guerre-fannoC’è un “califfato mondiale a pezzi”, parafrasando un’espressione del papa, che emerge dal cratere del 2015 e si sparge per la pelle del pianeta, come le pustole di un’infezione, lungo la fascia d’incontinenza che va dai monti dell’Atlante alle cime afghane, dove i confini non tengono più.
Si tratta di un’eruzione a presa rapida: porzioni di territorio incandescente che ambiscono a solidificarsi e farsi Stato, distinte geograficamente, ma unite ideologicamente, dalle sabbie del Mali alle savane della Nigeria, dalle rive del Tigri – Eufrate alle spiagge del Corno d’Africa.
Un terremoto che scuote la storia come non ricordavamo da tempo, in superficie e negli strati profondi, finendo per risvegliare due giganti: è questa la cornice del summit fra l’ex Kgb Vladimir Putin e la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei, cruciale per il prosieguo della guerra in corso.
Dietro di loro si stende l’ombra lunga degli imperi che furono, degli zar e degli scià, rispolverando e tirando a lucido antichi orizzonti, sempre attuali e duri a sbiadire. 

Lo sa bene Bergoglio, pontefice francescano e gesuita, con una propensione alla profezia e al pacifismo, ma pure un senso innato della strategia e del realismo, diplomatico nonché militare, da buon discepolo di Sant’Ignazio.
Nel Risiko del Grande Medio Oriente Francesco è stato il primo a rimettere in gioco Mosca e Teheran, modificando gli equilibri dell’area e mobilitando le due potenze, ortodossa e sciita, che oggi con il loro ritorno in forze, assai più di Parigi e Washington, stringono in una morsa lo Stato Islamico.
Se i fatti di Francia non avessero indotto il presidente iraniano Hassan Rohani a fermare last minute l’aereo in pista e annullare il suo tour nelle capitali europee, l’incontro con il Papa, in programma il 14 novembre, era destinato a concludere in modo spettacolare l’iter della parabola inaugurata due anni fa: visualizzando e solennizzando agli occhi del mondo il sorprendente riposizionamento della Santa Sede nello scacchiere del Vicino Oriente, sua “zona di influenza” per diritto di nascita.
Un azzardo avviato nel settembre 2013 con la lettera meritoria e temeraria di Bergoglio a Putin, presidente del G-20 di San Pietroburgo, a 40 anni dalla guerra del Kippur e a 20 dagli accordi di Oslo, che avevano invece suggellato e sigillato l’estromissione della Russia, conosciuta in quel frangente come Unione Sovietica.

La “santa alleanza” tra il Vaticano e il Cremlino, un partenariato strategico capace di resistere alle tempeste d’Ucraina e alle proteste dei cattolici uniati, reiterate venerdì da Poroshenko nelle sacre stanze durante l’udienza con il Pontefice, costituisce la più rilevante novità della politica estera di Francesco: un aggiornamento della Ostpolitik, rinominata “principio di realtà” e rivisitata in chiave teologica nella Esortazione Evangelii Gaudium,  a metà tra il pragmatismo e l’ecumenismo.

Il “colpo di fulmine” tra il papa e Putin, in omaggio al genius loci, era scoccato sulla via di Damasco, quando Bergoglio sbarrò la strada ai missili americani, puntati su Bashar Assad, e sbalzò di sella Barack Obama, novello Saulo, impedendogli di bissare gli errori di Bush e consegnare la Siria in dono allo Stato Islamico.

Uno – due: all’abbraccio asimmetrico dei russi ha fatto seguito quello ancora più audace con gli ayatollah, in una singolare applicazione alla diplomazia delle regole del tango, che impongono l’avanzata negli spazi stretti e non permettono il dietrofront dei ripensamenti.
Al ritmo deciso e decisionista di Bergoglio, le piste delle milonghe di Buenos Aires si sono sovrapposte ai cammini millenari d’Oriente, prendendo la direzione di Teheran. Una sequenza di “strappi” e fughe in avanti: dallo statement, informale, dell’Accademia Pontificia delle Scienze, laboratorio geopolitico di Francesco, fino alla posizione, ufficiale, assunta in concistoro dal Segretario di Stato, cardinale Parolin, nell’autunno dello scorso anno.
Al punto che la formula del 5 + 1, riferita come noto ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, integrati dalla Germania e protagonisti dello storico accordo sul nucleare iraniano, potrebbe a buon diritto evolvere in 5 + 2, riconoscendo il ruolo aggiuntivo e propulsivo della Sede Apostolica.

Nessun papa, nemmeno Wojtyla, che pure ricevette Tareq Aziz e intercedette per Saddam Hussein, aveva mai proceduto con tanta intraprendenza nel campo minato tra il Golfo e il Golan, senza remore ad esporsi e timore di compiere passi falsi.

Tutto questo accade mentre infuria tenace e feroce una “guerra di religione”, non però tra cristianesimo e islam, come maldestramente si tende ad accreditare, bensì all’interno della Umma. Un conflitto che vede il Vaticano neutrale, ma non equidistante, se consideriamo i sospetti, e il dispetto, che il suo riallineamento ha prodotto a Riyad e Ankara. Per non parlare di Israele, rispetto a cui non era mai sembrato così lontano.

Al cartello sunnita promosso dai sauditi per contrastare l’espansione persiana e sciita, con il concorso esterno ma non estraneo del premier Netanyahu e del sultano Erdogan, il papa oppone infatti un cordone sanitario delle antiche, e umanistiche, civiltà del Medio Oriente, nessuna esclusa, per isolare e neutralizzare il virus della barbarie, a partire da un vecchio adagio in base al quale chi sbaglia nemico ha già perso.

Nello scanner vaticano in definitiva i due islamismi militanti, degli ayatollah e dei califfi, evidenziano tratti assai diversi. Anzi divaricati: da una parte la volontà di riacquistare un primato locale. Dall’altra una velleità di conquistare il mercato mondiale.

“Con la drammatica situazione nel nord dell’Iraq e in alcune parti della Siria, constatiamo un fenomeno totalmente nuovo: l’esistenza di un’organizzazione terrorista che minaccia tutti gli Stati, promettendo di scioglierli e di sostituirli con un governo mondiale pseudo-religioso”. Era il 29 settembre 2014, festa di San Michele Arcangelo.
Rivolgendosi nell’emiciclo dell’Onu ai rappresentanti delle nazioni, calmo nei toni e apocalittico nei temi – alla maniera dei romanzi di Dan Brown interpretati sullo schermo da Tom Hanks alias Robert Langdon, cui peraltro vagamente assomiglia – il cardinale Parolin non ha esitato a identificare nell’Is una nuova specie di demone, che svela orrendamente il suo profilo mentre il mosaico mesopotamico si sgretola e cade in pezzi.

Parole che seduta stante hanno eletto lo Stato Islamico, nel catalogo e dall’osservatorio della Santa Sede, a nemico assoluto del XXI secolo, additandolo in quanto tale alla comunità internazionale: “La mia delegazione desidera ricordare che è sia lecito sia urgente arrestare l’aggressione attraverso l’azione multilaterale e un uso proporzionato della forza”. È stata questa la dichiarazione di guerra del Vaticano all’Is, con un anno di anticipo su quella di Hollande a Versailles.

Secondo la “dottrina Parolin”, come scrivemmo a caldo, la minaccia esistenziale non proviene quindi dall’Iran, erede di una tradizione statuale plurimillenaria, sebbene ambigua e dispotica, bensì dall’Is, che dello stato, a dispetto del nome, rappresenta il terminator e la negazione, trasponendo su basi religiose, in via strumentale, il dispositivo dei totalitarismi del Novecento e conservandone l’impulso nichilista.

Tutt’altro che un regime teocratico, dunque. Piuttosto il suo esatto contrario. Di qui l’attivismo discreto ma concreto dei nunzi apostolici, sulla scia della parola d’ordine impartita dal Segretario di Stato: “I cristiani perseguitati e tutti coloro che soffrono ingiustamente devono poter riconoscere nella Chiesa l’istituzione che li difende”.

Lungi dal rappresentare soltanto un simbolo, la spada dell’arcangelo Michele, sguainata un anno fa nel Palazzo di Vetro, svetta sui terrazzi della Mole Adriana: sormontando il ponte dei pellegrini, che Dante Alighieri ammirò e cantò con trasporto, nel primo giubileo dell’era cristiana, e che gli angeli in divisa guardano oggi e presidiano a vista, nel primo giubileo di guerra dell’era contemporanea.  (  www.limesonline.com  )

 

    di Piero Schiavazzi  
     (02/12/2015)

 

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