Mazzini e le frontiere d’Italia

Mazzini rappresentò gli ideali repubblicani all’interno del movimento risorgimentale e ciò gli causò, così come ai suoi seguaci, noie di non poco conto, tanto che fu costretto a vivere esiliato e braccato gran parte della vita.
di Achille Ragazzoni 

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Giuseppe Mazzini

Bolzano – ( Intervento dello storico Achille Ragazzoni al centro Pannunzio di Torino ) – “L’Italia è un’espressione geografica”, così affermò nel 1847 il Principe Clemente di Metternich, il grande nemico degli ideali nazionali (non solo di quelli italiani, va detto onestamente) che egli, da persona acuta ed intelligente, aveva capito prima di tanti altri poter essere l’esplosivo che avrebbe fatto saltare per aria le strutture politiche sorte all’indomani del Congresso di Vienna.

 Non si rendeva conto che la sua frase poteva esser letta anche in un altro senso, a lui sicuramente poco gradito, ossia che l’Italia, proprio perché aveva, ed ha, dei confini geografici assai ben definiti, cosa che non si può dire di tutte le nazioni europee, possedeva tutte le carte in regola per divenire anche espressione politica.

Uno di quelli che si impegnarono a far sì che ciò potesse avvenire fu Giuseppe Mazzini, non a caso definito “l’Apostolo dell’Unità”. Si è tanto criticato il “santino” risorgimentale che vede uniti i quattro “Padri della Patria”, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Cavour e Mazzini. Sono il primo a dire che non bisogna ridurre il Risorgimento ad un “santino”, ma l’immagine dei quattro ha, perlomeno, il pregio di presentarci le anime principali del Risorgimento (ve ne furono anche altre, minoritarie, ma comunque importanti dal punto di vista delle idee e comunque degne di rispetto): quella monarchica, quella volontaristico-combattentistica, quella liberale “pura” e quella repubblicana. Tutte e quattro concorsero a creare l’unità nazionale, si può preferire una componente ad un’altra, ma nessuna di esse può venir trascurata o archiviata come secondaria.

Mazzini rappresentò gli ideali repubblicani all’interno del movimento risorgimentale e ciò gli causò, così come ai suoi seguaci, noie di non poco conto, tanto che fu costretto a vivere esiliato e braccato gran parte della vita. Su Mazzini potremmo parlare giorni interi senza riuscire a sviscerare tutti gli aspetti del suo pensiero politico e filosofico, più che mai vivo a quasi 140 anni dalla sua scomparsa sotto falso nome a Pisa.

In questa conferenza vorrei limitarmi ad analizzare il pensiero di Mazzini circa le frontiere che l’Italia unita dovrebbe aver avuto. Oggi è diventato di moda parlare di “patriottismo della Costituzione” ma, con tutto il rispetto dovuto alla Costituzione, non va dimenticato che essa è un documento politico preparato da esseri umani in una determinata temperie storica, dopo qualche tempo la Costituzione può non essere più attuale e deve essere, ovviamente nei dovuti modi, magari modificata perché non più rispondente alle nuove esigenze dei cittadini. E’ troppo limitativo il concetto di “patriottismo della Costituzione”, la Patria va amata anche nella sua realtà fisica (senza ridursi al materialistico concetto di “Sangue e Suolo” proprio di certi nazionalismi nordici, per carità!) e culturale/spirituale, altrimenti il cosiddetto “patriottismo della Costituzione” diventa puro e semplice feticismo che può portare ad aberrazioni differenti, ma altrettanto gravi, di quelle cui porta il nazionalismo “sangue e suolo” al quale prima ho accennato.

Diverse volte nei propri scritti Mazzini ha fatto riferimento alla realtà fisica della Patria italiana ed il suo pensiero al riguardo si verrà evolvendo nel corso degli anni.

Nell’ “Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia”, del 1831, scrive: “L’Italia comprende: 1° L’Italia continentale e peninsulare fra il mare al sud, il cerchio superiore dell’Alpi al nord, le bocche del Varo all’ovest, e Trieste all’est; 2° le isole dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi, e destinate ad entrare, con un’organizzazione amministrativa speciale, nell’unità politica italiana”.

Per le isole intendeva, oltre ovviamente la Sardegna e la Sicilia, amministrate da due stati italiani, la Corsica e l’arcipelago maltese, rispettivamente sotto dominio francese e britannico.

A Malta la lingua ufficiale era allora l’italiano e l’inglese solo secondariamente. Al governo di Sua Maestà non veniva neppure in mente di scrivere atti pubblici solo in inglese, semmai erano bilingui ma, sovente, anche solo in italiano. Nel corso del Risorgimento Malta diverrà rifugio per molti patrioti perseguitati del Regno delle Due Sicilie, ma non solo, ed una certa libertà di stampa permise che venissero pubblicati libri, giornali ed opuscoli a favore dell’unità nazionale italiana. A Malta si costituì una sezione della “Giovine Italia”, sezione costituita da maltesi ed animata dai quattro fratelli Sceberras, che ben si possono definire i “Cairoli di Malta”. Uno di essi, Filippo, che morirà vecchissimo nel 1928, diede il proprio contributo alla nascita della “Giovine Malta” nel 1899, da cui sorgerà il Partito Nazionalista Maltese che ha, quindi, indirette origini mazziniane.

La Corsica era dal Mazzini conosciuta bene, in quanto vi trascorse alcun tempo in esilio nel 1831. Nelle “Note autobiografiche” scrive che, dopo essere sbarcato a Bastia, “Là mi sentii nuovamente, con gioia di chi ripatria, in terra Italiana. Non so che cosa abbiano fatto dell’isola, d’allora in poi, l’insistenza corruttrice francese e la colpevole noncuranza dei Governi d’Italia; ma nel 1831 l’Isola era Italiana davvero: Italiana non solamente per aere, natura e favella, ma per tendenze e spiriti generosi di patria (…) ogni uomo si diceva d’Italia, seguiva con palpito i moti del Centro e anelava ricongiungersi alla gran Madre”.

Molti corsi parteciparono attivamente ai moti risorgimentali (un corso, Desiderato Pietri di Bastia, fu uno dei primi caduti dei Mille a Calatafimi, cito solo lui per tutti…) e la francesizzazione dell’isola iniziò ad opera di Napoleone III, Napoleone il piccolo secondo i nostri patrioti, il quale temeva proprio che il moto per l’unificazione italiana potesse seriamente “contagiare” la Corsica. La Corsica fu terra di rifugio, come Malta, per molti esuli politici italiani, soprattutto dell’Italia settentrionale e centrale, alcuni molto famosi come Niccolò Tommaseo, i quali si trovavano come in Italia e la poca stampa che veniva pubblicata nell’isola prima dell’epoca bonapartista era assolutamente in italiano, anche quando mostrava lealismo francese, poiché pubblicare un giornale solamente in francese avrebbe ridotto grandemente il numero dei potenziali lettori….

Nei “Doveri dell’Uomo”, la sua opera più celebre pubblicata nel 1860, ma che assemblava in gran parte scritti già pubblicati, Mazzini esprime nuovamente concetti analoghi: “ A voi uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la patria meglio definita d’Europa. (…) Dio v’ha steso intorno linee di confini sublimi, innegabili: da un lato i più alti monti d’Europa, l’Alpi; dall’altro, il mare, l’immenso mare.

Aprite un compasso: collocate una punta al nord dell’Italia, su Parma: appuntate l’altra agli sbocchi del Varo e segnate con essa, nella direzione delle Alpi, un semicerchio: quella punta che andrà, compìto il semicerchio, a cadere sugli sbocchi dell’Isonzo avrà segnato la frontiera che Dio vi dava”, citando poi anche la Corsica.

Il Varo è il fiume ad occidente di Nizza, che segnava il confine tra il Regno di Sardegna e la Francia. Nessuno si sarebbe mai immaginato che la città ove aveva avuto i natali Garibaldi, uno dei principali unificatori dell’Italia, sarebbe potuta divenire francese. Essa veniva considerata una città italiana senza discussioni: quando Emanuele Filiberto volle che fosse adoperato il volgare nei suoi Stati quale lingua ufficiale, a Nizza si adoperò l’italiano, non il francese. E questo nel XVI secolo, quando il nazionalismo, non solo quello italiano, doveva ancora nascere…

Il cosiddetto plebiscito venne condotto in maniera che definire invereconda sarebbe addirittura eufemistico ed i suoi retroscena sono stati raccontati anche di recente in un grosso libro uscito a Nizza per la penna di Alain Roullier – Laurens. A Nizza i mazziniani non erano certo pochi, ricordiamo tra essi Enrico Sappia, che nel 1871 a Londra pubblicò in italiano un libro davvero esplosivo “Nizza contemporanea”, libro che mostrava tutti i trucchi ed i trucchetti adoperati per far diventare francese la patria di Garibaldi. Nel 2006 il libro, divenuto rarissimo, è stato finalmente tradotto in francese ed ha avuto ben cinque edizioni in quanto ai nizzardi raccontava cose che la censura post-1860 aveva loro sempre impedito di conoscere… Chi va a Nizza al cimitero del Castello può vedere una lapide in onore di Mamma Rosa Garibaldi, lì sepolta, posta dal Circolo Repubblicano Intransigente, segno di una presenza mazziniana sopravvissuta al 1860…

Ebbene, il pensiero di Mazzini circa la cessione di Nizza (e anche della Savoia) alla Francia è assolutamente chiaro, di un’assoluta contrarietà, manifestata a più riprese in diversi scritti. Prenderò ad esempio un articolo pubblicato nel 1860 sul periodico “Pensiero e Azione”. Dopo aver accusato il governo di doppiezza per aver negato fin oltre l’inimmaginabile di voler cedere Nizza e la Savoia alla Francia (forse l’accusa è per certi aspetti da ridimensionare, in quanto le smentite vennero dal governo Rattazzi che, effettivamente, era contrario al baratto e si sforzò di evitarlo), rinfaccia al re il comportamento di un suo antenato, Vittorio Amedeo II che, rispondendo al Re Sole che pretendeva la cessione della Contea di Nizza, disse, come Pompeo secondo la narrazione di Plutarco: “Io batterò col piede il terreno e ne farò escir combattenti”.

Il Re agisce secondo lo spirito dell’aborrito Congresso di Vienna e si appresta a far mercato del proprio popolo, così come si fece nella capitale austriaca 45 anni prima… “Il trattato firmato il 24 marzo in Torino viola lo Statuto, tradisce Nizza e Savoia, contraddice a tutte le dichiarazioni imperiali e ministeriali, rinnega il diritto de’popoli, sancisce una vecchia teorica di dominio per diritto divino rifiutata dal secolo e dichiara implicitamente che noi abbiamo un padrone straniero, i cui cenni son leggi”, questa l’amara conclusione del Mazzini.

Per decenni dopo l’annessione, l’irredentismo nizzardo venne agitato dai repubblicani e dai mazziniani, basti ricordare, tra le tante figure che in questo senso si batterono, il mazziniano ortodosso Carlo Dotto de’Dauli, uno degli arrestati per una presunta cospirazione repubblicana a Villa Ruffi presso Rimini nel 1871 (a questi fatti si accenna nel bel romanzo di Riccardo Bacchelli, “Il diavolo al Pontelungo”), il quale scrisse un grosso e documentato volume sull’italianità di Nizza, che un giorno mi piacerebbe far ristampare.

Dopo l’annessione furono migliaia gli abitanti della Contea di Nizza che si trasferirono nel Regno d’Italia, non solo in Piemonte e in Liguria, dove le affinità culturali li facevano sentire più che altrove “a casa propria”, ma anche in Toscana e in Romagna. L’emigrazione nizzarda ebbe anche propri organi di stampa, società di Mutuo Soccorso ecc. Naturalmente vi erano nizzardi dalle differenti e variegate idee politiche, non pochi, però, militarono nel movimento mazziniano perché questo, più di ogni altro, propugnava l’italianità di Nizza.

Circa la Savoia, di lingua francese, farò notare che anche Carlo Cattaneo era contrario alla sua cessione alla Francia e voleva che facesse parte della futura Italia federale.

Tra il 1860 ed il 1866 il pensiero mazziniano circa la nostra frontiera orientale si evolse: non più solo Trieste, bensì anche l’Istria. Nello scritto “La Pace” del 1866 lamenta che si riceva Venezia come “elemosina di seconda mano” (fu forse a Mazzini che D’Annunzio si ispirò per il suo verso “Venezia ottenuta con man di mendico”: l’Austria, com’è noto, cedette il Veneto alla Francia, che a sua volta lo cedette all’Italia…) e si abbandonino il Trentino, il Friuli e l’Istria. Per quanto riguarda la questione delle frontiere Mazzini dice di rifarsi alla “religione italiana di Dante” e cita il verso del IX canto dell’Inferno (“a Pola presso del Carnaro ch’Italia chiude e i suoi termini bagna”) definendo come NOSTRA l’Istria; nello stesso articolo rivendica l’Alto Adige “fino al di là di Brunopoli, – ossia Brunico, la città fondata dal vescovo Bruno – alla cinta delle Alpi Retiche”.

L’ultima avventura giornalistica di Mazzini (in questo senso di avventure ne intraprese tante, sì da ben meritare il titolo di “giornalista moderno” datogli dal compianto amico Tramarollo) fu la fondazione del battagliero settimanale “La Roma del Popolo”, che uscì dal 9 febbraio 1871 (anniversario della fondazione della Repubblica Romana) al 21 marzo 1872, pochi giorni dopo la scomparsa dell’Apostolo. Ebbene, nel programma di questo periodico Mazzini affermò che bisognava tendere al “riconquisto del Trentino, dell’Istria e di Nizza”. La questione delle frontiere d’Italia appassionò dunque il Mazzini fino al termine della propria vita si può ben dire.

Una costante del pensiero politico di Mazzini fu l’avversione nei confronti del federalismo. Egli era unitario, unitario e basta. Vedeva un parlamentino per le isole, vista la loro natura geografica che, soprattutto all’epoca, senza aerei o navi veloci, erano distanti dalla Madrepatria e avevano necessità di risolvere in fretta loro problemi particolari ma per il resto nessun federalismo. Era a favore, invece, di un forte decentramento amministrativo su base municipale. Egli riconosceva come organismi politici per così dire “naturali” solo il Comune e la Nazione. Anche quando parlava di regioni o province, non li intendeva come veri e propri enti autonomi, ma solo come organi per meglio coordinare l’attività dei Comuni.

Nell’era del “politicamente corretto”, la forma moderna dell’ipocrisia e dei luoghi comuni ripetuti fino alla nausea dai tanti fonografi viventi che ci circondano, bisogna assolutamente dire che la forma federale dello Stato è ipso facto migliore di quella unitaria. Ma perché? A chi mi dice così, faccio umilmente notare che il Messico è uno stato federale (Stati Uniti del Messico, si chiamano ufficialmente), mentre la Svezia è uno stato unitario: non bisogna possedere chissà quale fiuto da esperto di geopolitica internazionale per indicare quale dei due è amministrato meglio… e tanti altri esempi si potrebbero fare. Forse Mazzini non aveva tutti i torti quando diceva, nel 1868: “Noi non vogliamo autonomie provinciali e germi di federalismo che in dieci anni ci caccerebbero in liti da medio evo e in braccio a tutti i raggiri stranieri”, oppure, vent’anni prima, nel 1848: “Non v’è che UNA ITALIA.

L’Italia del Nord, le tre Italie, le cinque Italie sono bestemmie di sofisti o trovati dio politica cortigianesca condannati dal nascere all’impotenza”. L’unità come la vedeva lui poteva essere simboleggiata soltanto da una capitale come Roma, città con un passato millenario e glorioso, considerata sacra sia in epoca precristiana che cristiana e che sarebbe divenuta ancora più sacra una volta redenta dalla democrazia repubblicana. Roma era un mito per gli uomini dell’Ottocento, un mito in cui si mescolavano reminiscenze delle glorie classiche e visioni di glorie future, visioni che ai politici di oggi, duole doverlo riconoscere, mancano.

La Patria era, secondo Mazzini, che fu anche profeta dell’Unione Europea, non solo di quella italiana, il necessario anello di congiunzione tra l’Individuo e l’Umanità, ciò che lo proteggeva dai bassi istinti egoisti e riusciva ad elevarlo assieme ai propri fratelli e a migliorarlo moralmente nella prospettiva della costruzione di un mondo più giusto per tutti, non solo per gli Italiani, dove ogni popolo potesse mettere a disposizione degli altri quel particolare genio datogli da Dio – Mazzini era profondamente credente – o dalla Natura, per chi credente magari non è, dove ogni popolo potesse compiere la missione che Dio gli aveva affidato a favore dell’intera Umanità.

E’ per questo che il patriottismo mazziniano è ancora oggi attuale, in questo mondo globalizzato dove alcuni ci vorrebbero trasformare in puri e semplici consumatori anonimi senza passato e senza avvenire: protetti da quanto la Patria offre (ed essere patrioti in senso mazziniano non significa essere degli ottusi sciovinisti, anzi, proprio il contrario), l’uomo moderno potrà, senza timore, affrontare e vincere le sfide, alcune delle quali decisamente affascinanti, offerte dalla globalizzazione. E concludo citando anche alla fine quel principe di Metternich che ho nominato all’inizio, egli lasciò scritto il miglior complimento a Mazzini: “Ebbi a lottare contro il più grande dei soldati, giunsi a mettere d’accordo imperatori e re, uno czar, un sultano, un papa, principati e repubbliche, avviluppai e sciolsi venti volte intrighi di corte, ma nessuno mai mi diede maggiori fastidi al mondo d’un brigante italiano, magro, pallido, cencioso, ma eloquente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome GIUSEPPE MAZZINI.

 

 di Achille Ragazzoni
     (06/05/2011)

 

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