7 giorni a Entebbe, regia di José Padilha

7 giorni a Entebbe, il regista Padilha costruisce su questa storia vera un thriller sull’attesa, sulle lunghe ore e i sette giorni trascorsi in un frenetico tentativo di risolvere la situazione.
di Mauro Donzelli    

7 giorni a Entebbe, regia di José PadilhaJosé Padilha, regista di Narcos, è qui alle prese con un’operazione di salvataggio di ostaggi degli anni ’70 realmente accaduta. Il film venne presentato fuori concorso alla Berlinale del 2018.

Per la quarta volta l’operazione Fulmine viene portata sullo schermo, questa volta in un film britannico, 7 Days in Entebbe, diretto dal brasiliano José Padilha. Un autore diventato noto a livello internazionale, e molto criticato in patria per aver lavato i panni sporchi in pubblico, per il crime di grana grossa Tropa de elite, vincitore dell’Orso d’oro alla Berlinale 2008. Negli ultimi tempi è tornato in grande spolvero come produttore e regista di alcuni episodi della serie televisiva Narcos, uno dei maggiori successi di Netflix. Proprio delle prossimità stilistiche sono riscontrabili in questa riproposizione di una delle operazioni di salvataggio più celebri della storia.

Nell’estate 1976 un aereo Air France in partenza da Atene a Parigi, proveniente da Tel Aviv, viene dirottato da quattro persone: due tedeschi (un uomo e una donna) appartenenti a una scheggia fuoriuscita dalla banda terroristica di estrema sinistra Baader Meinhof, la Revolutionäre Zellen, e due palestinesi appartenenti al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Atterrano a Bengasi, in Libia, poi in Uganda, a Entebbe, grazie alla complicità del folle dittatore locale Idi Amin, appena protagonista di un rovesciamento delle alleanze, con allontanamento dall’occidente (e Israele) per avvicinarsi ai paesi arabi e l’URSS. Le loro richieste sono improbabili: la liberazione di una cinquantina di prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane ed europee, oltre a un riscatto di 5 milioni di dollari.

Padilha costruisce su questa storia vera un thriller sull’attesa, sulle lunghe ore e i sette giorni trascorsi in un frenetico tentativo di risolvere la situazione altrove, mentre nel vecchio terminal dell’aeroporto ugandese il tempo scorre molto lentamente. Fu il tedesco Wilfried Böse, interpretato dallo specialista locale delle coproduzioni internazionali, Daniel Brühl, a dividere gli israeliani (e gli ebrei) dal resto dell’equipaggio: un tedesco che compie a distanza di trent’anni un’operazione del genere fu uno shock enorme per l’opinione pubblica.

Il governo israeliano è in seduta permanente, con il primo ministro Rabin in dubbio (“non possiamo essere sempre in guerra”) se interrompere la politica tradizionale di “non collaborazione con i terroristi”, di cui il maggiore sostenitore è il suo rivale nel Partito laburista, Shimon Peres, all’epoca ministro della difesa, con la sua carriera gloriosa come militare alle spalle.

7 Days in Entrebbe è un thriller teso e non sbrigativo, che funziona al meglio quando gestisce una tensione costante, meno a fuoco sono alcune virate politiche più o meno ardite, alla ricerca di un’improbabile onda lunga che arrivi fino a oggi nel contrasto fra arabi e israeliani. Siamo all’aneddoto, poi, quando a venire evocato è il passato di Netanyahu stesso, in un corredo di scritte esplicative che abbondano, all’inizio come alla fine, provocando un effetto straniante, da manualetto for dummies, nel pubblico anche solo superficialmente al corrente di quei fatti.

Un’ora e mezza d’attesa per arrivare al momento cruciale, quello dell’irruzione delle forze speciali israeliane, con un’asciuttezza ben lontana dalle estetizzazioni di Tropa de elite, grazie a una sceneggiatura convincente di Gregory Burke, già autore dell’ottimo ’71. Particolarmente efficace è la contrapposizione continua, in montaggio alternato, fra l’operazione militare e un numero di danza dalle percussioni trascinanti, con protagonista la fidanzata di uno dei componenti del commando dello stato ebraico. Come dire, tutto un popolo che a casa partecipa, compiendo anche semplicemente il proprio lavoro, nello sforzo del giovane stato per la propria difesa. ( https://www.comingsoon.it )

 

 di Mauro Donzelli
   (11/02/2020)

 

 

 

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