Castellucci con l’Orestea al Teatro Argentina

Orestea, la commedia “organica” di Castellucci torna in scena dopo 20 anni a Roma. La tragedia eschilea rivive i fasti macabri del 1995, scioccando e incatenandone alla “visione profana” gli spettatori del Teatro Argentina.
di Fabiana Dantinelli

 

Romeo Castellucci è forse uno dei più poliedrici artisti teatrali del nostro tempo, uno che ha attraversato l’apparato scenico nel vero senso della parola, esplorandone e sviscerandone aspetti fra i più scioccanti. Il suo è un teatro da ”visione profana”, che obbliga lo spettatore allo sguardo, senza intenti didascalici o peggio, incomprensibili prosopopee che tanto piacciono a certi autori autoreferenziali.

L’Orestea di Castellucci è una tragica commedia umana, apologia di violenza famigliare, quella più estrema, la stessa che con spirito catartico è l’unica realmente capace di smuovere le nostre coscienze, in un senso o in un altro. È bello questo teatro macabramente teso allo squarcio delle ambiguità poetiche, perché in fondo ciò che racconta la poesia è sempre un atto di violenza imbellettato, come quel velo di sottile di polvere bianca che ammanta i personaggi del secondo quadro. Ma il sangue che lega i protagonisti della tragedia, varca i suoi limiti, rompe il laccio di fedeltà parentale, esplode e obbliga al confronto con la natura più intimamente perversa del racconto, quella del sacrificio barbaro di Ifigenia-Alice che cade nell’abisso della tana del Bianconiglio e come un domino schiaccia una ad una le vite dei personaggi.

Non mancano i riferimenti eccellenti, dal coniglio di Carroll alla follia di Artaud, come non manca il sangue che scorre impetuoso sulla scena, colando fin dentro le anime offese o colpevoli, o entrambe. Peccato non aver visto il terzo quadro, proprio il più atteso, Eumenidi, con le erinni-scimmie pronte al massacro di Oreste, finale bloccato, pare, dalle istanze capitoline di ordine pubblico. Peccato per il pubblico del Romaeuropa Festival perché questo teatro “scabrosamente primario” applaudito in tutta Europa è qualcosa di unico, che si ripropone con la stessa forza delle origini ed in parte con lo stesso cast. Rimane in realtà solo NicoNote-Cassandra, ma le new-entry meritano in ogni caso i nostri calli sui palmi, su tutti il coniglio-corifeo Simone Toni, straordinari interpreti di un universo grottesco, buissimo, animato da voci metalliche e bagni di sangue, in tutti i sensi.

Peccato non avere avuto vent’anni nel 1981, quando nasceva la Societas Raffaello Sanzio, assistendo al sodalizio artistico e umano Castellucci-Guidi e all’innocenza bestiale degli esordi. Peccato non aver osservato i colletti bianchi di quella nascente borghesia post terrorismo e lotta operaia macchiarsi sdegnosi in prima fila di quelle rosse gocce di “organica” vergogna… Ma in fondo come ci insegna Castellucci, certe eredità si raccolgono come un oggetto sconosciuto e nelle nostre mani d’avventori diventano antropologicamente teatro antico, poi nuovo, umano e disumano, ancora.  ( http://www.fermataspettacolo.it  )

 

    di Fabiana Dantinelli
        (18/11/2016)

 

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